Italia, febbraio 1965. L’obiezione di coscienza – cioè il rifiuto, per motivi religiosi o morali, di svolgere il servizio militare – è considerata un reato: per la legge dello Stato il servizio di leva è obbligatorio. Ma l’obiezione cresce, la coscienza non riconosce altri tribunali che il proprio; di fronte a ciò, i cappellani militari in congedo della Toscana insorgono: in una lettera del 12 febbraio a “La Nazione” scrivono che la scelta di obiettare non ha niente a che fare con il cristianesimo e che si tratta di mera viltà.
Il messaggio è chiaro: non si può essere buoni cristiani in Italia – nell’Italia del Vaticano e della DC, quella delle radici cristiane e dei crocifissi nelle aule scolastiche – se non si è disposti a uccidere qualcuno. L’obiezione di coscienza viene da loro presentata come addirittura “estranea al comandamento dell’amore”. Ma nessuno si sofferma sulla contraddizione, sull’inconciliabilità della stessa idea di milizia e gli evangelici “Porgi l’altra guancia” e “Riponi la spada nel fodero, perché chi di spada ferisce, di spada perirà”;
e poiché di voci autorevoli a favore della nonviolenza non se ne levano, l’unico ad alzarsi in piedi è il prete di una piccola parrocchia di campagna, don Lorenzo Milani, il quale sostiene che l’obiezione di coscienza – già praticata dai primi cristiani, molti dei quali protomartiri del potere di Roma – è non solo perfettamente comprensibile da parte di un cristiano, ma ovvia: il quinto comandamento – come dire – vale per tutti.
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