Riceviamo ancora richieste di chiarimento in relazione alla possibilità, per i dipendenti pubblici, di attivare una partita iva agricola.
Al riguardo siamo in grado di fornire alcuni aggiornamenti giurisprudenziali. Secondo il Consiglio di Stato, che si è recentemente espresso con ordinanza 2120/2023, l’esercizio dell’attività agricola in forma non professionale “non è” incompatibile con il principio di esclusività del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.
Difatti, l’art. 53 d.lgs. n. 165/2001 vieta espressamente ai pubblici impiegati l’esercizio dell’industria e del commercio, ma non anche l’esercizio dell’attività agricola.
Secondo i magistrati amministrativi, la ratio di tale esclusione dal nucleo delle attività incompatibili va ricercata nel contemperamento operato dal legislatore tra il principio di esclusività del rapporto di lavoro del pubblico dipendente con le esigenze, coessenziali alla titolarità di un fondo rustico e peraltro imposte dalla disciplina europea sugli aiuti agli agricoltori (cosiddetta “condizionalità”), di prendersi cura dello stesso (anche a mezzo di terzi incaricati) osservando le ordinarie pratiche agronomiche e di trarne un reddito agrario anche attraverso la trasformazione dei prodotti agricoli.
Pertanto, l’apertura di una partita IVA, “se strettamente funzionale all’esercizio non professionale dell’attività agricola per il corretto adempimento delle facoltà e degli oneri connessi alla proprietà di un fondo rustico, non può di per sé ritenersi vietata, purché detto esercizio resti limitato e strettamente correlato, quale sua necessaria e ancillare proiezione, al corrispondente assetto dominicale.”
Una diversa interpretazione non sarebbe compatibile con il nucleo essenziale delle prerogative dominicali ed anzi recherebbe vulnus all’effettività del diritto fondamentale di proprietà (art. 42, 2° comma, Cost.) anche nella sua più lata interpretazione che ne ha dato la Corte EDU (in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale n.1 alla Convenzione), perché si tradurrebbe nella imposizione, peraltro senza copertura normativa, di limitazioni ingiustificate all’uso ed al godimento di un bene immobile ed alle sue potenzialità reddituali, in insanabile contrasto, anche sul piano della logica e della ragionevolezza, con ciò che un pubblico dipendente potrebbe normalmente fare con beni immobiliari di diversa natura (ad es. concessione in locazione di un appartamento).
La prevalente giurisprudenza della Corte dei Conti, invece si attesta su posizioni più rigorose: in tal senso, tra le più recenti, la Corte dei conti, con sentenza n. 15/2023 della Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello, che ha affermato che l’esercizio di attività, qualunque essa sia, correlata al possesso e al concreto utilizzo della partita IVA, deve ritenersi preclusa.
Ad avviso dei giudici contabili, infatti, che per lo svolgimento di attività occasionale non c’è alcun bisogno di procedere all’apertura della partita IVA. L’art. 35 del D.P.R. n. 633/1972, infatti, prevede espressamente che “i soggetti che intraprendono l’esercizio di un’impresa, arte o professione nel territorio dello Stato, o vi istituiscono una stabile organizzazione, devono farne dichiarazione entro trenta giorni ad uno degli uffici locali dell’Agenzia delle entrate ovvero ad un ufficio provinciale dell’imposta sul valore aggiunto della medesima Agenzia;
la dichiarazione è redatta, a pena di nullità, su modelli conformi a quelli approvati con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate. L’ufficio attribuisce al contribuente un numero di partita I.V.A. che resterà invariato anche nelle ipotesi di variazioni di domicilio fiscale fino al momento della cessazione dell’attività e che deve essere indicato nelle dichiarazioni, nella home-page dell’eventuale sito web e in ogni altro documento ove richiesto”.
Tale disposizione appare idonea, secondo i giudici contabili, a individuare, per il tramite della dichiarazione di apertura della partita IVA, una chiara volontà del dichiarante di procedere a svolgere, in forma continuativa, una determinata attività d’impresa o professionale.
Si segnala, infine, la sentenza della Corte di Cassazione civile n. 27420/2020, che partendo dalla lettura combinata e complessiva dell’art. 53 TUPI con l’art. 60 D.P.R. n. 3/1957, afferma con riferimento alle attività assolutamente incompatibili (ossia l’esercizio di commercio, industria e professione) che la previsione, dal punto di vista oggettivo, è ampia e tale da includere tutte le attività che presentino i caratteri della abitualità e professionalità idonee a disperdere all’esterno le energie lavorative del dipendente e ciò al fine di preservare queste ultime e tutelare il buon andamento della P.A. che risulterebbe turbato dall’espletamento da parte dei propri dipendenti di attività imprenditoriali caratterizzate da un nesso tra lavoro, rischio e profitto.
Conseguentemente, l’orientamento di quella parte della giurisprudenza secondo cui l’attività agricola non rientrerebbe tra le attività automaticamente incompatibili non tiene conto di quella che era la struttura economico-sociale del Paese negli anni ‘50, nei quali fu emanato il D.P.R. n. 3/1957, ove quasi ogni famiglia, a vario titolo, era implicata nell’agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita, per via interpretativa, tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l’esclusione dall’impiego statale della maggior parte dei cittadini.
Soprattutto non tiene conto di quella che è stata l’evoluzione dell’attività agricola sia attraverso la L. 9 maggio 1975, n. 153, “Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità Europee per la riforma dell’agricoltura”, secondo la quale (art. 12) “la qualifica di imprenditore agricolo principale va riconosciuta a chi dedichi all’attività agricola almeno 2/3 del proprio tempo di lavoro complessivo e ricavi dall’attività medesima almeno i 2/3 del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale” sia attraverso l’adeguamento di tale attività alle strutture societarie già presenti nel nostro ordinamento, così che l’imprenditore agricolo può essere anche una società, sia di persone che di capitali, oltre che cooperative.
In questo caso l’impresa agricola resta comunque un’impresa commerciale ma qualora in possesso dei requisiti previsti dall’art. 2135 c.c., otterrà lo status di agricola e in quanto tale non sarà assoggettata al fallimento e alle altre procedure concorsuali (ex art. 2221 c.c.) né obbligata alla tenuta delle scritture contabili (ex art. 2136 c.c.).