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IN AMBITO MILITARE VIGE IL PRINCIPIO DEL FAVOR ADMINISTRATIONIS

di Cleto Iafrate

Un giudizio “opportuno” è anche “imparziale”?

(Nota a TAR Lazio, Sezione Seconda Ter, 30 gennaio 2020, n. 1268)

Introduzione.

 L’incredibile vicenda che ha visto protagonista un militare della Guardia di Finanza mi ha fatto venire in mente una scena del film Il fotografo di Mauthausen.

Tratto da una storia vera, il film racconta l’esperienza del fotografo spagnolo Francesc Boix all’interno del campo di concentramento di Mauthausen, in Austria.  

La scena è quella in cui ci si rende conto che la notizia della morte di un prigioniero era stata comunicata, per sbaglio, alla famiglia di altro prigioniero ancora in vita.

Un banale errore, a cui si sarebbe potuto facilmente porre rimedio. “Basta scrivere una lettera di scuse alla famiglia”, l’ovvia soluzione suggerita dal protagonista del film.

Però, l’ufficiale tedesco responsabile della missiva non è disposto ad ammettere l’errore. La sua presunzione d’onnipotenza glielo impedisce.

Quindi prende una decisione sconcertante.

                >>>> Clicca QUI per guardare la scena del film.

Il fatto.

Lino (nome di fantasia) è un sottufficiale della Guardia di Finanza il cui comportamento per circa trentadue anni è stato impeccabile. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti di ordine morale (un encomio solenne, sette encomi semplici e nove elogi), nonché una pubblica benemerenza per aver prestato soccorso in occasione del tragico sisma dell’Aquila. Per di più, fin dal 2003, è stato sempre valutato “Eccellente con lode” in occasione dei giudizi annuali caratteristici.

Inoltre, da quando ha conseguito il Brevetto di Specialista di Elicotteri (BSE), Lino ha sempre lavorato a stretto contatto con gli aeromobili militari.

In un deposito in lamiera attiguo all’hangar dove prestava servizio sono stati conservati (dal 23 agosto 2017 al 27 giugno 2018, quando sono state distrutte) ben 840Kg di sostanze stupefacenti del tipo canapa indiana, frutto di un sequestro di polizia. La sostanza, coperta solo da un telo, senza essere raccolte in sacchi sigillati, generava un forte odore (circostanza questa emersa anche da varie deposizioni dei militari).

Lino, nell’ambito dei controlli sanitari annuali previsti per l’accertamento dell’idoneità al volo, in data 8 e 12 giugno 2018, risulterà positivo ai “cannabinoidi” per una quantità di soli 66 ng/ml (laddove il limite massimo è fissato in 50 ng/ml). Si precisa che “l’analisi effettuata in data 12/06/18 ha avuto ad oggetto il medesimo campione oggetto del precedente accertamento”.

Per chiarire la situazione, l’amministrazione avrebbe potuto scrivere una lettera alla Commissione medica con la quale precisava le circostanze in cui il militare si era trovato. Per di più, i successivi due test eseguiti dal militare (in data 22 giugno e 26 luglio 2018) avevano dato esito negativo. Invece, ha ritenuto di aprire un’inchiesta disciplinare di stato in relazione all’accertata positività alla sostanza stupefacente.

La Commissione di disciplina, però, non se l’è sentita di infliggere al militare una condanna, al di là di ogni ragionevole dubbio; infatti, lo ha giudicato meritevole di conservare il grado e, soprattutto, il posto di lavoro. Fondamentali sono state le perizie prodotte da Lino da cui è emerso che l’azione scaldante del sole, esercitata sulla superficie metallica delle pareti e del tetto del locale nel quale era conservata la sostanza stupefacente, ha determinato un netto aumento della temperatura interna, facilitando la liberazione e diffusione, nell’ambiente limitrofo, di ampie quantità di principio attivo THC, la cui inalazione ha potuto determinare l’involontaria positività del militare alla sostanza stupefacente.

In un mondo ideale, la disavventura di Lino avrebbe dovuto concludersi qui. Purtroppo, essa è solo agli inizi.

L’amministrazione militare a questo punto nomina una seconda Commissione di disciplina, la quale ribalta il giudizio della prima e infligge al militare la sanzione di stato della perdita del grado per rimozione con l’iscrizione d’ufficio nel ruolo dei militari di truppa dell’Esercito, senza alcun grado.

Il che, tradotto dal burocratese, significa ritrovarsi dall’oggi al domani senza stipendio (era monoreddito), quindi sul lastrico; per giunta con due figli a carico.

A giudizio della seconda commissione, Lino “con il suo agire [avrebbe] arrecato gravissimo nocumento all’immagine e al prestigio del Corpo dinanzi ad Autorità esterne alla propria Istituzione (Nucleo Operativo Tossicodipendenze di Roma e Questura di Roma) investite dalla deprecabile vicenda di cui si è reso responsabile un appartenente alla Guardia di Finanza”.

Il militare, a questo punto, si appella al TAR Lazio che accoglie il suo ricorso e ne stabilisce la reintegrazione nel Corpo della Guardia di Finanza.

I giudici del TAR mettono nero si bianco che “La mancanza di prova certa in ordine alla volontaria assunzione di sostanza stupefacente, da parte dell’incolpato, palesa l’illegittimità della sanzione anche in relazione al profilo della “contiguità con soggetti che operano nell’illegalità” contestata al [militare] nel corso del procedimento disciplinare.

Tale condotta, infatti, è stata addebitata al ricorrente esclusivamente quale deduzione logica tratta dall’accertata volontaria consumazione di sostanza stupefacente.

Ne consegue che, non essendo stata accertata con certezza l’assunzione volontaria di sostanza, viene meno anche la conseguenza (ovvero la contiguità con ambienti criminali) che l’amministrazione ha desunto da tale condotta.” (TAR Lazio, n. 1268/2020).

Sfortunatamente, però, nemmeno i giudici del TAR riescono a mettere la parola fine alle disavventure di Lino.

Infatti, l’amministrazione militare interessa l’Avvocatura Generale dello Stato per la proposizione dell’appello al Consiglio di Stato e decide, nelle more del procedimento, di non dare esecuzione alla sentenza.

Lino, dunque, nonostante il giudizio favorevole della prima commissione di disciplina e la sentenza favorevole del TAR, è ancora senza stipendio e senza lavoro. L’unica sua certezza sono le spese legali a cui deve far fronte. A differenza degli Avvocati dello Stato, quelli di parte sono sempre a pagamento.

Alcune osservazioni in merito all’art. 1389, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 66/2010.

La norma di cui si è avvalsa l’amministrazione per nominare la seconda commissione, che ha ribaltato il precedente giudizio favorevole, è l’art. 1389, comma 1, lettera b) del D.Lgs. n. 66/2010, secondo la quale “Il Ministro della difesa se ritiene, per gravi ragioni di opportunità, che deve essere inflitta la sanzione della perdita del grado per rimozione ovvero la cessazione dalla ferma o dalla rafferma, ordina, per una sola volta, la convocazione di una diversa commissione di disciplina, ai sensi dell’articolo 1387”.

La disposizione trova applicazione nell’ipotesi in cui vi sia una divergente valutazione tra valutazione della commissione e valutazione del Ministro; e quest’ultimo intenda discostarsi dalle conclusioni raggiunte dalla Commissione di disciplina. Nel caso in esame, però, la decisione di nominare una seconda commissione non è stata presa dall’autorità politica (il Ministro), ma dall’autorità militare (il Comandante Interregionale).

La podestà decisionale infatti, attraverso una sub-sub-delega (cioè: dal Ministro al Comandante Generale e da quest’ultimo al Comandante Interregionale) è transitata dall’autorità politica a quella militare.

Tale circostanza non mi pare un dettaglio del tutto ininfluente, soprattutto in considerazione del fatto che in ambito militare vi è una prassi consolidata secondo la quale l’errore commesso da un militare in attività di servizio, che provochi un danno d’immagine all’amministrazione, può essere motivo di valutazione in peius dell’azione di comando dell’intera linea gerarchica. Ovverosia, la soccombenza in giudizio dell’amministrazione, specie se seguita dalla condanna alle spese, oltre a pesare direttamente sulle valutazioni caratteristiche del militare che ha sbagliato, nei casi più gravi compromette anche quelle dei suoi superiori; i cui giudizi potrebbero subire una flessione a seguito dell’abbassamento delle seguenti voci caratteristiche: “capacità di giudizio” e “capacità di giudicare i dipendenti”.

Tale circostanza, a parere di chi scrive, concorre a suscitare un cointeresse nella catena di comando in occasione di eventuali procedimenti il cui esito potrebbe provocare imbarazzo all’amministrazione, ovvero ledere la sua immagine.

Inoltre, in relazione ai giudizi delle commissioni di disciplina che ribaltano un precedente giudizio favorevole auspico che prima o poi qualcuno si ponga la seguente domanda: Può esserci imparzialità in assenza di terzietà? La risposta non mi pare scontata, tenuto conto del fatto che i membri di una commissione di disciplina spesso dipendono -per quanto riguarda note caratteristiche, trasferimenti, avanzamenti e sanzioni disciplinari- dalla medesima catena di comando.

La seconda osservazione attiene alla ratio della norma in esame.

L’ordinamento delle Forze armate non ha sempre avuto le caratteristiche secondo le quali, oggi, siamo portati a pensarlo. Per la verità, originariamente, esso non aveva una propria ed autonoma connotazione risultando parte integrante di un più ampio sistema, all’interno del quale trovava una propria collocazione anche il concetto di giustizia militare. La separazione tra i due ambiti è avvenuta solo in tempi relativamente recenti. Inizialmente, all’interno del consorzio militare non esisteva alcuna distinzione tra l’esercizio dell’azione penale e quello dell’azione disciplinare. Questa confusione aveva una sua giustificazione storica nella convinzione che la figura del comandante assommasse in sé, oltre ai poteri del superiore, anche quelli tipici del giudice[1].

Il comandante, dunque, infliggeva sia le sanzioni penali che quelle disciplinari.

Ebbene, la datazione dell’art. 1389 (solo riordinato nel D.Lgs. n. 66/2010) risale proprio a questo periodo storico. In tale contesto, non si può escludere che la facoltà di nominare una seconda commissione avesse lo scopo di favorire eventuali militari condannati a sanzioni penali più gravi della perdita del grado. Se così fosse, la prerogativa ab origine era espressione del principio del favor rei; cioè, la sua ratio era quella di valutare, con il secondo giudizio, se ci fossero i presupposti per infliggere al reo una sanzione più lieve rispetto a quella già inflittagli.

Ciò è tanto più vero, se solo si considera che opportunità, dal latino opportunĭtas, è sinonimo di vantaggio, convenienza.

E per chi? Se non per il reo

Sfavorendo il reo, dunque, si finisce per “avvantaggiare” interessi estranei a quelli individuati dallo spirito originario della norma.

Stando così le cose, la vigenza della lettera b) dell’art. 1389, all’indomani della separazione dell’azione penale da quella disciplinare, a parere di chi scrive, ha di fatto introdotto nell’ordinamento militare un principio giuridico nuovo: il principio del “favor administrationis”.  

Principio che mal si concilia con il principio di rieducazione della pena, ex art. 27 c. 3 Cost. che, secondo la giurisprudenza amministrativa, è “indirettamente” operante anche in materia di sanzioni disciplinari[2].

Sotto altro profilo, è di tutta evidenza che non è possibile muovere alcun rimprovero ad un soggetto per ragioni di opportunità che, per definizione, sfuggono dal giudizio inerente il proprio comportamento, sia in tema di volontà (condotta dolosa), che in termini di prevedibilità (condotta colposa), perché non controllabili e definibili a priori dal suddetto individuo.

3.1. Le conseguenze sistemiche derivanti dall’emersione del “favor administrationis”. 

Giunti a questo punto della trattazione, è necessario porsi alcuni quesiti in merito alle conseguenze insite nella sopravvivenza del predetto art. 1389.

Infatti, tenuto conto della contiguità teleologica intercorrente tra le norme disciplinari e quelle penali (militari), di cui l’art. 260 c.p.m.p rappresenta la massima espressione, tale disposizione del codice militare spezza tale contiguità e coerenza per le ragioni che seguono.

E’ noto che nell’ordinamento penale le ragioni di “opportunità” si traducono in vere e proprie «cause di non punibilità», anziché in motivi di sanzione, come nella disposizione in analisi[3].

Al fine di chiarire il concetto appena esposto, si pensi all’art. 649 c.p. che, a determinate condizioni esclude la punibilità di alcuni fatti a danno di congiunti, oppure all’art. 131 bis c.p., con cui viene esclusa la punibilità per “particolare tenuità del fatto”.

3.2. Il “forum shopping disciplinare”.

Ulteriore conseguenza del predetto art. 1389 è l’emersione di un vero e proprio “forum shopping disciplinare”.

Preliminarmente, occorre osservare che in diritto internazionale privato per “forum shopping” “Si intende la possibilità accordata alle parti di una controversia giudiziaria di affidarla alla cognizione del giudice di uno Stato piuttosto che a quello di un altro. L’espressione viene anche utilizzata per stigmatizzare l’abuso di tale possibilità di scelta, quando cioè colui che intenta l’azione giudiziaria sceglie il foro che ritiene possa applicare la legge a lui più favorevole[4].

In altre parole, se è vero che l’illecito disciplinare è teleologicamente contiguo all’illecito penale, è altrettanto vero che il predetto forum shopping non sembra in armonia con l’art. 25 della Costituzione, perché distoglie l’incolpato dal “giudice disciplinare” precostituito per Legge.

Peraltro, sembra che tale prassi si stia consolidando[5].

Conclusioni.

In conclusione, si auspica l’abrogazione del predetto art. 1389, poiché la sua presenza non pare in armonia con il principio di rieducazione della pena, con il principio di precostituzione del Giudice naturale, con il principio di imparzialità dei pubblici uffici, giungendo sino a pregiudicare irreversibilmente il diritto al lavoro.

Cleto Iafrate

Dirigente SIBAS-Finanzieri



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