IL MISTERO DELL’ELICOTTERO DELLA GUARDIA DI FINANZA SCOMPARSO IN SARDEGNA –

 di Cleto Iafrate 

Contributo per la pace e per l’attuazione della Costituzione.

Papa Francesco: «Mentre il popolo soffre, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti, e alcuni dei paesi fornitori di queste armi sono anche fra quelli che parlano di pace. Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?»

La sera del 2 marzo 1994 un elicottero della Guardia di Finanza, nome in codice Volpe 132, in volo di ricognizione costiera notturna per la repressione di traffici illeciti via mare, decollato dall’aeroporto militare di Elmas, si è inabissato nelle acque a largo di Capo Ferrato, a pochi chilometri dal poligono interforze di Salto di Quirra, portando con se i corpi, mai trovati, del maresciallo Gianfranco Deriu, 41 anni, e del brigadiere Fabrizio Sedda, 28 anni.

Un incidente, si pensò all’inizio. Ma nel 2011 la richiesta di archiviazione viene rigettata per gravissime mancanze investigative. Le accuse a questo punto diventano omicidio colposo plurimo e disastro aviatorio. Le analisi sui pochi pezzi dell’elicottero recuperati certificano la presenza di combustione ed esplosivo, compatibili con l’abbattimento in volo.

La tragedia è stata ribattezzata l’Ustica sarda. Diversi testimoni oculari, infatti, hanno riferito di aver sentito, al momento della scomparsa dell’elicottero, un grande boato, simile ad un’esplosione, e di aver visto precipitare in acqua una sorta di palla di fuoco. Ma i contorni della vicenda non sono stati mai chiariti ufficialmente.

Al momento del presunto abbattimento Volpe 132 aveva appena sorvolato un mercantile, Il Lucina, che poi è scomparso nel nulla. Giovanni Utzeri, uno dei testimoni, afferma che l’elicottero era a pochi metri da lui quando è stato abbattuto.


Molti elementi concorrono a ipotizzare che il mercantile sia la vera chiave del mistero.

I testimoni riferiscono che la nave stazionava alla fonda da tre giorni e la sua linea di galleggiamento si abbassava notte dopo notte.

Inoltre Il Lucina fu successivamente coinvolto nella strage di Djen-Djen, avvenuta nel luglio dello stesso anno in Algeria, dove l’intero equipaggio fu sgozzato.

I sette uomini, tutti italiani[1], furono ritrovati imbavagliati, con mani e piedi legati e la gola tagliata. Il tutto avvenuto su una nave ormeggiata in un porto controllato in modo capillare dai militari.

Nella stiva del Lucina, insieme alle merci, vennero rinvenute 600 tonnellate di materiale “non dichiarato”, che secondo un articolo pubblicato dal quotidiano la Repubblica nel 1997 potrebbe riferirsi ad un carico di armi.

La scomparsa del Volpe 132 ha ispirato un docufilm dal titolo Il grano e la Volpe, di cui si consiglia vivamente la visione. Si tratta di.

Rispetto a quest’ultima vicenda, colpisce l’intervista rilasciata da Antonino Arconte nel docufilm “Il Grano e la Volpe” -un prezioso contributo alla verità che meglio di qualsiasi scritto rende l’idea di quello che potrebbe essere accaduto quella sera- il quale riferisce che “su quella nave, quel giorno del massacro, doveva esserci anche Tano Giacomina di Oristano, un agente dei servizi segreti, nome in codice G. 65, inserito nella divisione Gladio, Ma solo per un caso, dovuto a problemi di salute, Giacomina non si imbarcò” (dal minuto 50:00 del docufilm).

L’amico e collega di Tano Giacomina, Antonino Arconte, nel corso dell’intervista ha raccontato: «Nel 1994 io ero un ex ufficiale dell’organizzazione Gladio. Noi eravamo il cosiddetto braccio armato dei servizi che non potevano compiere missioni armati all’estero. Eravamo stati addestrati per questo e la nostra copertura era quella di macchinisti, … Tano, per esempio, era Capitano, io ero di scorta, ed altri come noi eravamo di scorta ad un carico di enorme valore, si parlava di centinaia di miliardi di valore, che doveva arrivare sicuramente a destinazione.

Gli armatori non sapevano che quel traghetto in quel viaggio aveva trasportato un container che non conteneva pompe per l’agricoltura ma sistemi di puntamento missilistici della OTO Melara.

Tano mi ha contattato il mese di settembre del 1994 e mi ha detto: «Ma ti sembra possibile che io dovevo essere a bordo di questa nave –mi disse il Lucina- e non ci sono stato per una questione di problemi familiari miei, e poi vengo a sapere pochi giorni dopo che tutto l’equipaggio è stato sgozzato a Djen-Djen, dove dovevo esserci anch’io? Com’è possibile che siano stati i terroristi?” Perché anch’io conosco il porto di Djen-Djen. Là dove è successo il fatto è la parte militare del porto. Che ci fa una nave che carica grano nella parte militare di un porto mercantile? È circondata da reticolato. Ci sono le camionette che girano in continuazione. E l’Algeria non era un paese democratico. Non è che la gente poteva fare quello che voleva. Zona militare era zona militare davvero. Quindi era poco credibile questa cosa. Sicuramente lui non stava andando a portare grano in Algeria. Questo lo sapeva anche lui. Non c’era bisogno che me lo diceva».

Alla luce di queste dichiarazioni, resta forte il sospetto che l’elicottero sia stato abbattuto perché testimone scomodo di un traffico illecito tra Africa e Italia.

Circa una settimana dopo la tragedia in un hangar di Oristano viene denunciato il furto di un elicottero (gestito da una società fantasma con sede a Roma in uno stabile del ministero dell’Interno) tale e quale a quello precipitato, che verrà ritrovato in seguito, in un deposito a Quartu Sant’Elena, quasi totalmente smontato e privo di molti pezzi.

Il giornale La Nuova Sardegna scrisse che “molti elementi concorrono a ipotizzare uno scenario nel quale l’elicottero di Deriu e Sedda si sia trovato nel mezzo di un traffico illecito coperto“.

Se così fosse, da qualche parte potrebbe trovarsi un Militare (ignoto), magari in pensione, che è a conoscenza di fatti che possono aiutare a capire che cosa è successo quella notte, ma non è disposto a raccontarli, probabilmente per paura di eventuali conseguenze. Un milite che vorrebbe, ma non può!

Di seguito, nel corso di una intervista “immaginaria” al misterioso Milite ignoto si cercherà di far luce sui suoi timori, cioè di individuare gli scogli di ancoraggio dell’omertà. Lo scopo è quello di permettere alla verità di riprendere la sua rotta verso il più vicino “porto di giustizia”.

 Intervista al Milite ignoto

 Autore: «Carissimo Milite ignoto, all’interno di questa vischiosa vicenda, è plausibile che qualcuno sia stato costretto ad obbedire all’ordine di tacere oppure ad ordini che avrebbe dovuto disattendere?»

Milite igoto: «Si. L’ordinamento militare è una specie di micro-Stato annidato in seno allo stato democratico. Noi militari da sempre siamo relegati in una condizione di totale subordinazione e vulnerabilità. L’ordinamento, infatti, attribuisce alla gerarchia ampi poteri discrezionali e sanzionatori. Sanzioni che incidono sulle valutazioni annuali e possono portare anche alla perdita del posto di lavoro[2]. Inoltre, per noi militari il trasferimento ad altra sede è qualificato come “un ordine militare” e pertanto è caratterizzato dalla più ampia discrezionalità a fronte della quale l’amministrazione non assume alcun obbligo di motivazione.

Tali circostanze, sinergicamente combinate, rendono il principio dell’obbedienza leale e consapevole nulla più che un mito. Infatti se un militare decidesse di disattendere un ordine illecito, le conseguenze per lui potrebbero essere nefaste[3].

Ritengo, pertanto, plausibile, in astratto, che un Milite ignoto, per tutelare il posto di lavoro e la serenità della sua famiglia, possa aver obbedito all’ordine di tacere oppure ad ordini che avrebbe dovuto disattendere e, dopo tutti questi anni, non se la senta di raccontarlo, probabilmente, perché teme addebiti penali.»

 A: «Lo capisco. In fondo, non è colpa sua se l’ordinamento militare non si è ancora informato allo spirito democratico della Repubblica, come prevede l’art. 52 della Costituzione. Sappia però il Milite ignotoe si regoli di conseguenza– che, secondo la dottrina più recente, “fino a quando il subordinato non verrà posto nella condizione effettiva di dire ‘signornò’, deve essere esclusa la sua responsabilità penale in caso di esecuzione di ordine costituente reato. Se il militare è ridotto dall’ordinamento a mero strumento della macchina bellica che lo trasforma in docile esecutore di un’altrui volontà, alla quale egli è tenuto a piegarsi, non può essere ritenuto responsabile delle manovre compiute da chi di quella macchina ha il comando e il controllo[4]”.

I timori del Milite ignoto, pertanto, non sono del tutto fondati. Il magistrato a cui, eventualmente, si rivolgerà non potrà non tener conto del fatto che la disciplina militare, così come è congegnata, è in grado di anestetizzare qualsiasi limite posto al dovere di obbedienza del militare; di narcotizzare, cioè, il suo dovere di disobbedienza agli ordini manifestamente illeciti.

M.i.: «Tuttavia i rischi derivanti dal codice dell’ordinamento militare rappresentano solo uno degli scogli di ancoraggio dell’omertà. Forse il meno “resistente”. Il vero scoglio risiede nel codice penale.

Se l’incidente del Volpe 132 fosse avvenuto all’interno di una cornice di traffico illecito coperto e il Milite ignoto raccontasse la verità violerebbe l’art. 262 del codice penale, che punisce con la reclusione da 3 a (24 anni[5]) chiunque rivela od ottiene “notizie delle quali l’Autorità competente ha vietato la divulgazione” (c.d. notizie riservate). Infatti, il racconto dell’evento presupporrebbe l’esibizione non autorizzata o, comunque, la rivelazione dell’esistenza di documenti classificati la cui diffusione recherebbe un danno agli interessi fondamentali della Repubblica.

Vien da chiedersi: Ma quali sono gli interessi della Repubblica?»

A.: «Comprendo appieno le sue ragioni e in parte le condivido. Sappia, però, il Milite ignoto –e si regoli di conseguenza– che l’art. 262 c.p., per la sua indeterminatezza, può essere qualificato come una norma penale in bianco, in quanto non rispetta il principio di tassatività della legge penale. La legge, infatti, non elenca le notizie di cui è vietata la divulgazione e rimane vaga sui criteri di individuazione della assunta “dannosità” delle notizie in caso di divulgazione. Intendo dire che il legislatore ordinario non ha definito quali siano le “notizie riservate” tutelate nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato, lasciandone la determinazione all’autorità politico-amministrativa competente. La disposizione, infatti, non indica i motivi per i quali la divulgazione delle notizie può essere vietata, rimettendoli alla totale discrezionalità dell’autorità decidente.

Ma non finisce qui. Il vincolo di segretezza –cioè, la stampigliatura su cui è ancorata l’omertà- in Italia può essere apposto addirittura anche da un “operatore economico”, su delega conferitagli dall’Autorità competente. Probabilmente siamo uno dei pochi Paesi che permette a un operatore economico di apporre un vincolo di riservatezza ascrivibile alla tutela di interessi pubblici, presidiato da una norma penale il cui limite massimo edittale è da omicidio volontario[6].

Notoriamente l’operatore economico non giura fedeltà ai valori della Costituzione, semmai sarà fedele agli interessi del mercato e del profitto. L’operatore si colloca al di fuori dell’ordinamento delle Forze armate, esclusivamente preposte alla difesa della Patria.

Vien da chiedersi: “E quando gli interessi della Repubblica non si conciliano con quelli dell’operatore economico?”

Intendo dire che in alcuni casi –e questo potrebbe essere uno di quelli- l’omertà imposta dalla stampigliatura, alla quale si sente legato il Milite ignoto, favorisca non gli interessi della Repubblica, ma solo l’impero militare privato”. Così lo ha definito l’onorevole Mauro Pili[7]: “una dinastia nata e cresciuta tra armi e affari che in Sardegna ha fatto soldi a palate … un vortice di denaro generato come slot-machine”.

Premesso quanto sopra, mi sento di dire al Milite ignoto che i suoi timori, benché giuridicamente fondati, non costituiscono un solido scoglio di ancoraggio dell’omertà. Poiché un magistrato che abbia veramente a cuore i valori della Costituzione, nel giudicarlo, non potrà non tener conto del fatto che l’art. 262 del codice penale del 1930 è impregnato della cultura dominante nel periodo fascista. Il magistrato, inoltre, dovrà tener conto anche del fatto che i Giudici delle leggi da tempo hanno auspicato che “il legislatore si faccia carico dell’esigenza di una revisione complessiva della materia del segreto” (Cort. Cost. 295/2002).

Ad ogni modo, quella del Milite ignoto è una decisione molto sofferta che non si può prende di certo con il codice aperto. Si deve prendere con il cuore aperto alle sofferenze e al bisogno di verità delle famiglie dei poveri colleghi. Il Milite ignoto dovrebbe chiedersi se sia giusto che dopo tutti questi anni il padre del brigadiere Sedda non sappia ancora se suo figlio è morto da eroe oppure per imperizia. E che i figli del maresciallo Deriu tuttora non sappiano se l’elicottero sia stato abbattuto oppure sia precipitato a seguito un errore umano. I due piloti il 26 maggio 1994 furono iscritti al registro delle notizie di reato per Perdita colposa di aeromobile (art. 106 c.p.m.p.).

Le autorità militari hanno anche tentato di imporre il segreto di Stato sulle indagini della commissione militare interna[8]. Il procuratore però ha insistito perché la segretazione era avvenuta in modo anomalo, così anomalo che ne ha ottenuto immediatamente la revoca. Dalla relazione della commissione militare emerge che la morte dei due sottufficiali della Guardia di finanza sarebbe stato un incidente, probabilmente dovuto ad un errore del brigadiere Sedda.

Tuttavia l’autorità giudiziaria ha dovuto attendere ben sei anni per ottenere la perizia richiesta per accertare la presenza di esplosivo sui pezzi di lamiera del Volpe 132 recuperati in mare.

 In conclusione, si auspica che questo contributo possa servire per scuotere la coscienza del Milite ignoto e indurlo a fare la cosa giusta.


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