Afghanistan – Camp Arena: Intervista al generale Roberto Zago

Era il lontano 2003 quando tutto ebbe inizio. Camp Arena, costruito dai militari italiani, nei primi anni di insediamento, vide tra i suoi principali interpreti il generale Roberto Zago, oggi in quiescenza, all’epoca al comando della base dell’Aeronautica Militare di Villafranca di Verona.

Raggiunse l’Afghanistan nel 2005. Il nome della base italiana di  Camp Arena ( oggi completamente dismesso “guarda il Video”) fu in omaggio alla città veneta. 

Di seguito l’articolo di  Maria Vittoria Adami per l’Arena di Verona:

C’è l’amarezza di vedere in tre giorni riconquistato l’Afghanistan. Ma anche la speranza che la società civile afghana abbia oltrepassato un punto di non ritorno che non la farà retrocedere del tutto.

Quasi che quello sprazzo di vita democratica assunta per vent’anni dall’Occidente, come un seme, possa continuare a germogliare. Guarda con questi occhi a Herat e alle montagne dell’Afghanistan il generale dell’aeronautica militare Roberto Zago, che nel 2005 partì dalla base di Villafranca, allora colonnello del 14° Comando mobile di supporto (oggi Terzo stormo), per costruire il Camp Arena divenuto luogo simbolo delle missioni della Nato. Medaglia d’argento al merito aeronautico, per questo, il generale trevigiano, in pensione dal 2011, fu tra i primi ad arrivare.

Generale, oggi cosa prova davanti alla caduta dell’Afghanistan in mano talebana?

C’è l’amarezza di non essere riusciti a indirizzare la società verso linee diverse. Ma non per volontà della popolazione afghana, che invece era felice della nostra presenza e approfittava anzi per imparare: dai medici agli agenti di polizia.

È l’amarezza di vedere conquistato il Paese in tre giorni in quel modo, soppiantando un’organizzazione ventennale. Ma c’è anche la speranza di aver lasciato un messaggio all’opinione pubblica indelebile.

Un seme piantato nel 2005, quando siete partiti.

Sì, allora ci dissero che dovevamo prepararci per una missione senza precedenti. Non sapevamo cosa. Preparammo personale e materiali e fu davvero un’operazione unica per l’aeronautica militare italiana.

Destinazione Herat.

Arrivammo lì su una spianata con una vecchia torre di controllo dotata di una radio della seconda guerra mondiale. La pista appena abbozzata era tutta bucherellata.

Lì nacque Camp Arena, il cui nome ci suona familiare

In omaggio a Verona. Costruimmo un complesso per velivoli attrezzato con sistemi di controllo di volo e torre di controllo. Doveva essere il campo per gli italiani e le forze della Nato impegnate in quel territorio, per 700 persone, attrezzato con impianto idrico, fognature, mense e tende. Il ministro Martino ci diede 45 giorni di tempo per costruirlo.

Ne impiegammo 44. In 16 anni è diventato una cittadella strutturata, un aeroporto internazionale con linee di raccordo, deposito carburanti e strutture per 2.500 persone. Chissà adesso cosa ne sarà…

Con quale stato d’animo siete partiti?

Avevamo un grande entusiasmo. Tutti i militari volevano partecipare. Ma non si poteva portarli tutti. Partimmo in 48 con la voglia di dimostrare alla Nato e a tutti ciò che potevamo fare, con un forte spirito di corpo. Lavorammo giorno e notte a turno.

Punto di partenza Verona…

Organizzammo un grande ponte aereo da Villafranca partendo con un primo C130 e poi con Antonov e C17 americani (come quelli che ha visto in questi giorni pieni di persone in fuga). Si partiva, in accordo con Verona, al termine degli spettacoli in Arena per non disturbare la stagione lirica con il rombo degli aerei. Portammo da Villafranca a Kabul 1.600 tonnellate di materiali, trasferiti poi con aerei più piccoli a Herat. Altro materiale arrivò con un convoglio ferroviario attraverso le ex repubbliche sovietiche.

Com’era il rapporto con la popolazione?

Ci appoggiavamo molto alla manovalanza afghana impiegando circa 200 persone al giorno, con una paga di 4 dollari. Al mattino, fuori dal campo, c’era la fila di 2.000 uomini. Costruimmo anche un pronto soccorso avanzato con visite ambulatoriali per la popolazione che con noi era cordialissima.

Uscivamo con la scorta perché potevano esserci persone vicine all’estremismo, ma ci fu un dialogo con i tre villaggi vicini che approvvigionavamo d’acqua. I bambini giocavano nel campetto di calcio che avevamo fatto. Le famiglie erano legate a noi.

Gli studenti del corso di pittura dell’università di Herat dipinsero su un sasso, all’ingresso del campo, le bandiere italiana e afghana e il logo del Camp Arena. Avevamo l’entusiasmo alle stelle, sapevamo che erano vicini a noi e avremmo fatto qualcosa di grande. C’erano tutti i presupposti.

E ora è tutto finito?

Quello che avevamo costruito era un segnale alla popolazione e questa esperienza ventennale gli afghani non la scorderanno, soprattutto i giovani che erano con noi.

Dice?

È la mia speranza. Vent’anni fa venivano da un regime totalitario, ma non avevano coscienza di una possibile convivenza libera e democratica che ora è un’idea che ha fatto breccia. Credo che il regime avrà un impatto meno violento perché ciò che è stato non può passare inosservato:

quando arrivammo le donne partorivano in un sotterraneo dell’ospedale, sulla terra con il bambino. Ora hanno un ospedale nuovissimo costruito da italiani e spagnoli con medici formati anche a Verona. Abbiamo addestrato tribunali, ambiti giuridici. Il passo mentale avanti è stato fatto. Non credo si butterà via tutto.

Conosciamo, però, il regime talebano: una cappa sui diritti civili e le libertà, soprattutto delle donne, attraverso cui difficilmente passa la luce.

Il regime potrà anche fare un’inversione, ma non sarà mai il regime di un tempo perché ora l’opinione pubblica sa di poter vivere in modo più democratico. Herat ha un brutto ricordo del regime che tra l’altro non è stato duraturo (dopo il ritiro delle truppe sovietiche nel 1989, i talebani presero il potere nel 1996 fino al 2001, anno dell’attentato alle Torri gemelle, ndr), e ha sperimentato la vita suggerita dall’Occidente pur mantenendo solide le tradizioni.

Quali?

Laggiù tutto è organizzato secondo etnie e la chiave è proprio la convivenza tra etnie. Massoud (il Leone del Panjshir, simbolo della lotta antiqaedista e antitalebana, assassinato due giorni prima dell’attentato alle Torri, ndr) era l’unico a tenerle unite e oggi è considerato come un eroe nazionale. La sua scuola e questa esperienza ventennale giocheranno sul sistema talebano che non credo sarà feroce e totalitario come il precedente perché l’opinione pubblica afghana è ora convinta di ciò che abbiamo trasmesso.

Eppure la riconquista è stata repentina.

Conferma che è avvenuto per una volontà politica. Dopo vent’anni, in tre giorni, pur con esercito e polizia afghana attrezzatissimi (glielo assicuro), hanno riconquistato senza sparare un colpo il Paese.

FONTE L’ARENA DI VERONA

 

 

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