La sentenza che vi proponiamo oggi, chiarisce un aspetto afferente alla vita privata del militare, ovvero al di fuori del servizio. Malgrado taluni comportamenti siano condannabili dal punto di vista etico, la Cassazione ha ritenuto opportuno annullare, su richiesta del procuratore militare, la sentenza del Tribunale Militare di Roma, comminata ad un Caporal Maggiore dell’ Esercito, reo di aver offeso un Brigadiere dei carabinieri durante un posto di blocco.
Il Tribunale aveva emesso la condanna a cinque mesi e dieci giorni di reclusione militare, con la concessione della sospensione condizionale della pena .
I FATTI
Siamo a Montecatini Terme. E’ l’ ottobre 2015. Un Brigadiere ed un carabiniere Scelto intimano l’alt ad una Volkswagen Polo con tre persone a bordo. Dopo un controllo, rilevano che le tre persone a bordo non indossano la cintura e , controllando l’auto, notano una discrasia fra i quattro pneumatici e quelli che avrebbero dovuto montarsi in relazione alla carta di circolazione del veicolo. Le infrazioni vengono contestate al conducente, nonché proprietario del veicolo, un Caporal Maggiore dell’ Esercito Italiano, che non si qualifica come tale.
Il militare dell’ Esercito, fuori dal servizio ed in abiti borghesi, inizia ad inveire contro i due carabinieri, proferendo, secondo l’accusa, le seguenti frasi:
“Non siete buoni a fare un cazzo; fermate solo le persone senza precedenti e militari; invece di fermare gli albanesi, vorrei vedervi al lavoro con gli albanesi!”;
e poi interloquendo con il carabiniere più alto in grado, dice:
“Sai che c’è, fai come cazzo ti pare e piace!”; infine parlando con altra persona e riferendosi ai militari presenti, esterna la seguente frase: “lasciali stare a questi due che tanto non capiscono un cazzo”.
Nel corso delle interlocuzioni, il Brigadiere chiede al caporal maggiore di mostrargli i suoi documenti, ottenendo dal militare il tesserino di appartenenza ai paracadutisti dell’ Esercito. Solo in questo momento il Brigadiere dei carabinieri viene a conoscenza che colui che poco prima l’aveva offeso,è un militare.
Su questo motivo, sia il procuratore militare, sia la Cassazione, sostengono la tesi secondo la quale il Tribunale Militare di Roma ha condannato ingiustamente il Caporal Maggiore per il reato di insubordinazione con ingiuria continuata e pluriaggravata (di cui agli artt. 81, secondo comma, cod. pen., 47, nn. 2 e 4, 189, comma 2, cod. pen. mil . pace).
LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE
Al caso in esame – sostengono i giudici – si deve rilevare che l’analisi compiuta dal Tribunale non ha considerato il fatto che la qualificazione di Caporal Maggiore come militare, per come valutata dalla decisione, non si profila essere emersa nel momento in cui l’imputato ha proferito le frasi offensive all’indirizzo delle persone offese, apparendo invece che questo fatto si è concretizzato dopo la pronuncia delle frasi stesse e, quindi, dopo la commissione della condotta tipica, con la susseguente identificazione compiuta dal Brigadiere dei carabinieri nei suoi confronti.
In quel preciso frangente – continuano i giudici – non è risultata provata la circostanza che il Caporal Maggiore si sia qualificato come militare nei confronti delle persone offese, se non dopo aver
integrato la condotta offensiva a lui ascritta, così che essa non poteva, né può ritenersi abbia avuto causa nella disciplina militare. Per tale dirimente ragione deve pervenirsi alla conclusione che il reato
militare di insubordinazione di cui all’art. 189 cod. pen. mil . pace non sussiste.
In buona sostanza, il caso di specie avrebbe dovuto essere regolato in base al principio di diritto secondo cui la condotta ingiuriosa di un pubblico ufficiale è punibile ai sensi dell’art. 341-bis cod. pen. e va conosciuta dall’autorità giudiziaria ordinaria, mentre, se l’ingiuria è commessa da un militare al di fuori della propria attività di servizio, può ricorrere anche l’ipotesi di reato di cui all’art. 226 cod. pen. mil . pace, ma non quella di cui all’art. 189 stesso codice, che invece presuppone un rapporto di dipendenza funzionale fra l’agente e l’offeso, giusta il disposto dell’art. 199 cod. pen. mil . pace, che esige la pertinenza a ragioni sia di servizio che di disciplina.Il reato quindi avrebbe dovuto essere in ogni caso conosciuto dal Tribunale ordinario, e non dal Tribunale militare, comunque carente di giurisdizione.