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Strade sicure: il personale è solo un numero?

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Sul tema strade sicure avevamo già detto la nostra in passato. I militari impiegati nell’ Operazione su tutto il territorio italiano, spesso devono rispondere ad attacchi perpetrati  da parte di scellerati che non hanno nulla da perdere ( leggi QUI). Col passare degli anni la situazione non è cambiata, anzi, sono state emanate delle nuove disposizioni che di fatto hanno obbligato i graduati a cambiare  il loro stesso stile di vita.

La denuncia arriva dal SIAM “Sindacato Aeronautica Militare”. Un racconto scevro dai moralismi di circostanza, che evidenzia aspetti davvero poco piacevoli.

Basta suicidi militari! Un problema da prevenire più che da curare


Ancora un suicidio tra i militari impegnati nell’operazione Strade Sicure.
È il quarto in due anni. Quanti altri ne serviranno per capire che non si può più attendere e bisogna intervenire?

Ufficialmente registriamo che del problema se ne stanno occupando la Commissione Difesa ed i Vertici Militari, eppure è forte la sensazione che la strada che si sta percorrendo sia sbagliata; la strategia infatti mira a fornire un supporto a coloro che manifestano forme di disagio solo dopo che queste si palesano. Nessuna azione concreta è stata messa in atto per prevenire tale disagio.

Si preferisce intervenire solo dopo che i buoi hanno abbandonato la stalla, quando ormai è troppo tardi.
Basta guardare le situazioni oggettive in cui opera il personale, per capire che ci sono tutte le premesse per mettere in crisi i soggetti psicologicamente più fragili. Questo accade quando li si costringe a turni stressanti e pesanti di sei ore al giorno, con 12 kili di attrezzatura addosso, fermi con il divieto di mangiare o anche solo di bere, con il caldo o con il freddo, per sei giorni la settimana, per sei mesi. Il settimo giorno è di riposo, nella speranza che nessuno della muta si ammali, altrimenti addio anche a quel misero riposo, perché in Aeronautica non ci sono riserve; per questo il personale impiegato, non può neanche andare in licenza o permesso.

Di recente, a sorpresa e senza preavviso, il personale precettato per questo genere di attività, è partito con la convinzione che l’impegno sarebbe stato di tre mesi, come di consueto, scoprendo solo una volta giunto in sede di missione, che la durata della missione sarebbe raddoppiata, scatenando il panico negli interessati e nei rispettivi nuclei familiari, già rassegnati a un trimestre di lontananza, e che ora dovranno fare i salti mortali per sei mesi.


Producendo situazioni paradossali, come quella di quel collega che aveva fissato il suo matrimonio al termine dei tre mesi canonici, per poi scoprire di rischiare di non poter raggiungere la propria promessa sposa sull’altare. Oppure di quella madre, che inviata in missione, non riusciva a vedere i suoi figli piccoli per il divieto di allontanarsi dalla zona di operazioni, neanche nelle ore libere dal servizio, dato che, come detto, non essendoci riserve, tutti i titolari devono essere a disposizione per eventuali sostituzioni, generalmente dovute a malattie, che costringono il resto dei colleghi a “stringere” il turno rinunciando anche al riposo settimanale.

Che dire poi delle condizioni in cui spesso alloggia il personale impegnato: vecchi casermoni fatiscenti, privi di ogni privacy, con bagni in comune dotati di turche e incapaci di offrire quel minimo di comfort necessario ad avere un adeguato recupero psicofisico. Non vi è neanche una presa di corrente per ogni posto letto, a cui attaccare quello smartphone, che in questi casi, è il solo legame con i propri affetti: principale strumento antidepressivo, per non crollare nelle poche ore di riposo in una branda, circondati da armadi inadeguati e poche sedie su cui ammucchiare i propri effetti personali. Va detto che chi invece i sei mesi se li deve fare in una tenda fredda d’inverno e rovente d’estate, invidierà anche la peggiore delle camerate.

Non fosse sufficiente, scopriamo che il senso di abbandono che prova il personale impiegato in strade sicure, è palesemente esemplificato da situazioni in cui si trovano coloro che prendono servizio dalle 19.00 all’ una di notte, però non hanno la possibilità di cenare in mensa, perché questa non apre in un tempo utile a consentire la fruizione di un pasto caldo, prima di iniziare le procedure di armamento. Ecco quindi che i malcapitati vengono “generosamente” dotati di un sacchetto con dei panini, che però devono mangiare prima delle 18.00, dato che durante il servizio è categoricamente vietato mangiare e bere, con il risultato che al termine del servizio, quando ormai si sono fatte le due di notte, i militari affamati, sono costretti a cercare un luogo dove mangiare, che non essendo vicino, obbliga a mettersi in macchina stanchi ed assonnati, alla ricerca di un pasto, nella speranza che non sia l’ultimo.

Quando poi si fa finalmente ritorno a casa, la promessa è quella di poter stare tranquilli per due anni, cosa che di sovente non accade, perché a mala pena si ha il tempo di smaltire la licenza disponibile e gli straordinari accumulati, che ci si trova di nuovo ad essere inseriti in nuove liste di partenti, in quanto il personale disponibile non è sufficiente a soddisfare le esigenze di questa attività.
Infine non possiamo sottolineare che i pochi soldi spettanti per questa ed altri tipi di missione, vengono liquidati agli interessati con molti mesi di ritardo, finendo per far gravare sui già magri bilanci familiari, le esigenze di sicurezza del paese.
In queste che sono solo alcune delle condizioni in cui si opera, come possiamo pensare che non possano insorgere problemi psicologici?

Aspettiamo con impazienza il giorno in cui venga divulgata la statistica delle separazioni e dei divorzi tra i militari: probabilmente scopriremo che siamo totalmente fuori scala, rispetto alla media nazionale.
Più che pensare allo psicologo da far intervenire successivamente, interveniamo su tutto ciò che deve essere fatto prima. Eliminando gli elementi ansiogeni e dando un supporto concreto alle famiglie che troppo spesso sono abbandonate a se stesse, per sopperire alle troppo leggermente invocate “esigenze di forza maggiore” dell’Amministrazione.



Come Sindacato Aeronautica Militare SIAM, vogliamo raccogliere tutto il disagio che ci perviene quotidianamente dal personale, sempre più sotto pressione, perché più vecchio, perché costretto a fare sempre di più con meno persone e meno risorse, perché troppo spesso non rispettato nella sua dignità. La prevenzione proclamata a più riprese in ogni riunione del personale, in cui si parla di sicurezza nei luoghi di lavoro, non rimanga una volta di più lettera morta.

A quei colleghi intimiditi da certi Comandanti che diffondono fake news sui sindacati, i quali affermano che non siamo riconosciuti istituzionalmente e che se ci si iscrive al sindacato non si è dei buoni militari, vogliamo dire che, non solo siamo pienamente legittimati ad operare da una sentenza della Corte Costituzionale e da un assenso del Ministro della Difesa, ma che in questa battaglia, vogliamo riversare tutte le nostre energie e che, proprio perché ci sentiamo dei buoni militari, siamo qui per lottare e per migliorare le condizioni di lavoro dei nostri colleghi, per ridurre il rischio dell’insorgere di certe problematiche.

L’obiettivo sarà quello di creare un ambiente di lavoro più rispettoso dei diritti e della dignità del personale. Perché lo psicologo che interviene a posteriori, equivale al prete che benedice la salma, entrambe giungono quando ormai è troppo tardi: occorre creare i presupposti per prevenire, per evitare che CATERINA e tutti gli altri, non siano morti invano, e casi come il loro non si debbano ripetere più.


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