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Spese di giudizio. Quando il militare paga anche se è assolto.

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Un militare dell’esercito italiano è stato sottoposto ad un processo penale, nel quale è stato imputato per il reato di truffa militare aggravata e continuata.

Con una sentenza del Tribunale militare di Verona del  2013,  è stato assolto per insussistenza del fatto.Il Tribunale militare ha rilevato che:

– nella contestazione, era dedotto che – come rilevato da una telecamera posta sull’accesso carrabile, che aveva registrato l’uscita della sua auto – il militare aveva lasciato il luogo di lavoro durante l’orario di presenza, registrato da un badge in entrata e in uscita;


l’istruttoria processuale aveva accreditato la tesi difensiva, secondo la quale il dipendente aveva consegnato l’auto alla moglie in attesa all’esterno o, comunque, non aveva abbandonato il servizio, poiché le riprese non avevano consentito di individuare la persona alla guida o la targa, ma solo il modello e il colore dell’auto.

Dopo la conclusione del giudizio penale, nel luglio 2014 il militare in questione ha chiesto alla Amministrazione di appartenenza il rimborso delle spese legali sostenute, ai sensi dell’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997, convertito nella legge n. 135 del 1997.

La Direzione generale per il personale militare del Ministero della difesa però ha respinto l’istanza, rilevando che i fatti valutati in sede penale non erano connessi all’espletamento del servizio o con l’assolvimento di compiti istituzionali.


Con il ricorso di primo grado proposto al TAR per l’Emilia Romagna, Sede di Bologna, il militare ha impugnato il diniego e ne ha chiesto l’annullamento.

Il TAR ha respinto il ricorso ed ha compensato le spese del giudizio, rilevando che l’art. 18 del decreto legge n. 67 del 1997 non si applica quando l’interessato non abbia ‘agito nell’interesse dell’Amministrazione’ e la condotta oggetto della contestazione non sia strumentale alla prestazione del servizio.

Il militare ha quindi tentato la via dell’appello reclamando i precedenti giurisprudenziali in materia – dai quali era facilmente deducibile, a suo dire,  che i fatti contestati erano ‘connessi al servizio svolto’, perché, ‘se non fosse stato presente al lavoro, non sarebbe stato possibile addebitare al medesimo alcuna condotta illecita’.

Inoltre nei motivi di appello, il militare ha denunciato anche una disparità di trattamento, poiché in un altro caso il Ministero ha accolto una analoga istanza di un sergente dell’esercito, volta al rimborso delle spese legali sostenute per difendersi dalla ingiusta imputazione di truffa militare, ‘riconducibile ad una falsa attestazione della presenza in servizio’.

Stralcio di sentenza del consiglio di stato del 28 novembre 2019

Secondo di giudici l’appello va respinto, perché infondato. poiché l’art. 18, comma 1, del decreto legge n. 67 del 1997, come convertito nella legge n. 135 del 1997 cita testualmente:

“Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza “nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”.

“Qualora il diniego (totale o parziale) di rimborso risulti illegittimo, il suo annullamento non comporta di per sé l’accertamento della spettanza del beneficio, dovendosi comunque pronunciare sulla questione l’Amministrazione, in sede di emanazione degli atti ulteriori”.

Per quanto riguarda i presupposti indefettibili per l’applicazione dell’art. 18 . sostengonoi giudici –  si è formata una univoca e convergente giurisprudenza della Corte di Cassazione e di questo Consiglio di Stato.

Tali presupposti sono due:

a) la pronuncia di una sentenza o di un provvedimento del giudice, che abbia escluso definitivamente la responsabilità del dipendente;

b) la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali.

Oltre alla pronuncia del giudice che espressamente abbia escluso la responsabilità del dipendente, l’art. 18 ha disciplinato un ulteriore presupposto per la spettanza del beneficio, e cioè la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali: l’art. 18 si applica a favore del dipendente che abbia agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse della Amministrazione .

L’art. 18 – continuano i giudici – è di stretta applicazione e si applica quando il dipendente sia stato coinvolto nel processo per l’aver svolto il proprio lavoro.

Invece, esso non si applica quando la contestazione in sede penale si sia riferita ad un atto o ad un comportamento, in ipotesi, che:

a) di per sé costituisca una violazione dei doveri d’ufficio ;



b) sia stato comunque posto in essere per ragioni personali, sia pure durante e ‘in occasione’ dello svolgimento del servizio, e dunque non sia riferibile all’Amministrazione , ad esempio, quando la contestazione si sia riferita a una condotta che riguardi la propria vita di relazione, ancorché nell’ambiente di lavoro , o che non sia riconducibile strettamente alla attività istituzionale, quale l’accettazione di un regalo o il coinvolgimento in un alterco con colleghi, ma che all’esito del giudizio non sia stata qualificata come reato.

c) sia potenzialmente idoneo a condurre ad un conflitto con gli interessi dell’Amministrazione (ad esempio quando, malgrado l’assenza di una responsabilità penale, sussistano i presupposti per ravvisare un illecito disciplinare e per attivare il relativo procedimento.

La condotta contestata in sede penale – concludono  i giudici –  non ha riguardato un atto o un comportamento posto in essere nel corso dello svolgimento del servizio e imputabile alla Amministrazione di appartenenza, bensì un comportamento del dipendente, che cui è stato contestato di essersi allontanato – per ragioni personali – dalla caserma per ragioni familiari.

Pur se il giudice ha escluso la sussistenza del reato, va condivisa la valutazione dell’Amministrazione, che ha rilevato come il comportamento oggetto della contestazione non può essere considerato connesso ‘con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali’.

12. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del secondo grado del giudizio


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