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SINAFI: Stato ostativo perenne alle aspirazioni professionali per coloro che hanno subìto una condanna.

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Il  sindacato dei Finanzieri SINAFI scrive al Comando Generale sulle esclusioni/penalizzazioni nei concorsi interni per il personale che ha subito condanne.

Pregiatissimi, alla scrivente Organizzazione Sindacale continuano a pervenire da propri iscritti, riflessioni inerenti alle procedure di avanzamento o concorsuali, riservate agli appartenenti al Corpo, per le quali è necessario riferirsi alle disposizioni di legge applicabili e all’autonomia ordinamentale e discretiva dell’Amministrazione, concetti e precetti ai quali si rinvia per brevità.

Riteniamo, purtuttavia, che la tematica, per certi versi molto delicata, meriti ogni attenzione e qui, in via del tutto propositiva, si vuole fornire un contributo riflessivo, residuando – a certe condizioni – la possibilità di aperture a margini di miglioramento delle suddette procedure di cui potrebbe beneficiare il personale e l’Amministrazione (che dai primi è composta).

Segnatamente, viene subito alla mente la circostanza, non secondaria, che trattasi di procedure interne, ossia relative alla valutazione di personale “già appartenente al Corpo”.

A questo proposito, si è dell’avviso che, ferma restando l’autonomia e la discrezionalità di cui si è fatto testé cenno, la formula ricorrente, secondo la quale i candidati (o i valutandi) debbano attestare, tra l’altro, che “[…] non risultino imputati o condannati ovvero non abbiano ottenuto l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 c.p.p. per delitti non colposi, né siano o siano stati sottoposti a misure di prevenzione”, possa, probabilmente, essere oggetto di riflessione ed eventuale rivisitazione, soprattutto nel caso in cui dovesse trattarsi di fatti molto risalenti nel tempo, in ordine ai quali l’ordinamento ha esplicato ed esaurito l’azione (anche in funzione rieducativa ex art. 27 Cost.).

Si ritiene doveroso dover fugare, sin da subito, ogni dubbio circa l’eventuale sdoganamento di comportamenti illeciti commessi da appartenenti al Corpo. Piuttosto, l’intento è quello di suscitare una riflessione intorno al merito e all’opportunità di valutare “amministrativamente” quei comportamenti più gravi (es. ex art. 407, comma 2, c.p.p.), tenendoli distinti Pag. 2 a 2 da illeciti di flebile lesività o, più semplicemente, dettati da errori comportamentali.

Del resto, tali e tante sono le occasioni che le forze di polizia, in genere, si trovano a contrastare che, nonostante la professionalità e l’umanità con le quali le affrontano, incappano comunque in qualche denuncia, talora strumentale o altrimenti infondata che, tuttavia, ha degli effetti immediati e diretti sulla carriera (e soprattutto sullo “stato d’animo” dell’operatore), spesso irreversibili: una sorta di principio di “presunzione di colpevolezza”, in via giustiziale/amministrativa, salvo diverse conclusioni dell’Autorità giudiziaria che, fisiologicamente, arrivano dopo anni.

Onde evitare una sorta di “stato ostativo” soggettivo, delle legittime aspirazioni di ogni Collega (con una serie di intuibili disagi di ordine psicofisico, economico, familiare, etc.), è d’uopo riferire ulteriori elementi di valutazione, anche sotto l’aspetto sistematico, orientato ai principi di proporzionalità e ragionevolezza.

Intanto, almeno per le fattispecie penalmente rilevanti di minimo allarme sociale, per quanto attiene alle procedure concorsuali/valutative interne, si potrebbe rivisitare la formula innanzi citata e renderla meno afflittiva, soprattutto in termini temporali, probabilmente più innestata nella contemporaneità (e in linea con la funzione ”rieducativa della pena”).

Sarebbe il caso, pertanto, che l’indagine temporale per valutare la meritevolezza o meno del percettore e, quindi la possibilità di accedere ad un concorso per l’avanzamento, venisse limitata in un arco temporale ben definito. Parimenti – escludendo le ipotesi di reato più gravi (es. ex art. 407, co. 2, c.p.p.) e altre fattispecie incompatibili con lo stutus di Finanziere – potrebbe riflettersi intorno all’opportunità di estendere tale “metodo di calcolo”, riconnettendolo alla gravità dell’eventuale reato commesso (in tempi assai remoti), in base, ad esempio, ai tempi per la riabilitazione (art. 178 c.p.), all’estinzione dello stesso, all’eventuale beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 167 c.p.), alla non menzione della condanna (art. 175 c.p.), etc., circostanze tutte riconducibili a una minore gravita ab origine, o comunque all’eliminazione ex post degli effetti scaturenti dalla condanna.

Ciò, anche ai fini degli obblighi dichiarativi rimodulati con la c.d. Riforma Orlando (D.Lgs. 122/2018) e, già prima, per effetto di una pronuncia della Consulta in tema di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti (cfr. sentenza n. 287/2010).

A chiosa, occorre tenere presente che, talvolta, ci si trova al cospetto di Colleghi che, seppur condannati a distanza di decenni – oltretutto per reati di minima offensività – gli stessi risultano aver maturato e mantenuto, nel prosieguo, una carriera brillante, con tanto di ricompense di ordine morale (encomi solenni) e con note caratteristiche connotate da giudizi fortemente meritevoli, ma non sufficienti a “cancellare l’onta” della pregressa vicenda giudiziaria).

Una siffatta impostazione, in qualche modo, stride fortemente con quello che si è metaforicamente definito stato ostativo perenne alle aspirazioni professionali (nonostante gli effetti premiali o estintivi di legge), con intuitive conseguenze personali di vario genere, nella quotidianità, non solo lavorativa ma anche familiare.

Nella fiducia che queste argomentazioni, integrative di altre, possano agevolare ogni utile riflessione sulla delicata ma complessa tematica, porgiamo distinti saluti.

Roma 18 maggio 21

Il Segretario Generale Nazionale Eliseo Taverna

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