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Sergente Marina a Maresciallo: se non t’n vai t’mett i man nguoll !! Condannato per insubordinazione

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Una condanna che certamente si poteva evitare, sarebbe bastato rimanere un po più calmi, eppure anche in ambito militare talvolta capita di perdere le staffe. E’ ciò che è accaduto ad un Sergente della Marina che ha pagato a caro prezzo l’atteggiamento irrispettoso nei confronti di un superiore.

Nel giugno 2018, il Tribunale Militare di Napoli riteneva colpevole un Sergente della Marina Militare dei delitti di insubordinazione con minaccia aggravata e di insubordinazione con ingiuria aggravata in danno del superiore gerarchico, un maresciallo .

Il Sergente era stato accusato e condannato per avere profferito all’indirizzo del superiore , le parole, “se non t’n vai t’mett i man niguol”  e successivamente ” non tieni le palle”.

L’atteggiamento non collaborativo – si apprende dalla sentenza – è nato dall’ ordine di un Capitano che aveva disposto di trasferire l’ufficio in altro locale. La frase a contenuto minaccioso  venne infatti pronunciata mentre il maresciallo  tentava di far riflettere l’imputato in ordine al suo atteggiamento di omessa collaborazione nei confronti delle disposizioni impartite dal comandante.

La condotta del Sergente non era quindi diretta a contestare direttamente l’ordine di trasloco dato dal capitano , “ma il comportamento del maresciallo, al quale era chiesto di allontanarsi (in quanto altrimenti gli avrebbe messo le mani addosso)”.

Il fatto – secondo il Tribunale Militare prima e come condiviso dalla Corte Militare di Appello poi, è attinente alla disciplina, avendo il maresciallo  “tutto il diritto di chiedere spiegazioni al Sergente circa il suo comportamento in una situazione in cui egli non solo non stava collaborando all’esecuzione dell’ordine, ma si stava allontanando mentre il superiore si rivolgeva a lui e senza attendere di essere congedato”.

Offensiva dell’onore e del prestigio del superiore gerarchico è poi la frase “non tieni le palle”, che ha “un evidente significato di persona debole, incapace di far valere le proprie ragioni, offesa che appare particolarmente pregiudizievole per il prestigio di un superiore”.

Il fatto che una espressione volgare del tipo di quella profferita dall’imputato sia sovente usata nel linguaggio comune non elide la sua connotazione offensiva ove la stessa sia pronunciata verso un superiore gerarchico in violazione delle regole di disciplina militare↓

Il fatto – continuano i giudici di primo e secondo grado – ha offeso in modo significativo libertà morale e onore della persona offesa ed è stato compiuto con una intensità del dolo particolarmente elevata, anche in considerazione delle frasi da lui pronunciate nel corso del processo , evidenzianti una rivendicazione del comportamento tenuto accompagnata da espressioni polemiche nei confronti dei propri superiori.

Il Sergente in seguito alla condanna ha presentato ricorso in Cassazione articolando una serie di motivazioni a sua difesa. Nulla da fare. Gli ermellini hanno confermato le decisioni delle due precedenti sedi di giudizio.

Stralcio di sentenza della Corte di Cassazione

I motivi di impugnazione da esaminare – sostiene la Corte – congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, sono manifestamente infondati e, come tali, inammissibili poiché essi sostanzialmente riproducono i motivi di appello formulati avverso la sentenza di primo grado, mentre la sentenza impugnata ha dato alle questioni, in fatto e in diritto, da essi implicate, specifica e non illogica risposta, improntata a corretta interpretazione delle norme di legge sostanziale rilevanti nel caso di specie.

In buona sostanza – sostengono gli ermellini –  la sentenza impugnata ha accertato che il maresciallo non usò verso il subordinato toni autoritari per indurlo a collaborare all’esecuzione dell’ordine (come era sua facoltà), utilizzando invece l’arma della persuasione, ottenendo dal subordinato le frasi indicate nei due capi di imputazione.

Pertanto correttamente la sentenza impugnata afferma che la frase “se non t’n vai t’mett i man niguol”, profferita, non in tono scherzoso, dal ricorrente all’indirizzo del superiore gerarchico, era oggettivamente intimidatoria, prospettando un male futuro e dipendente dalla volontà dell’agente nell’ipotesi di mancata ottemperanza all’intimazione di lasciare il luogo.

Nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra l’offesa all’onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore gerarchico nonché l’uso di tono arrogante (che nel diritto comune non viene preso in considerazione), perché contrari alle esigenze della disciplina militare, per la quale il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell’espressione della sua personalità umana, ma anche nell’ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell’autorità del grado e della funzione di comando .

Il ricorso è in conclusione da rigettare, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali anticipate dallo Stato per il giudizio di cassazione


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