Proponiamo di seguito la sentenza integrale della Corte Costituzionale circa la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei Conti Regione Puglia.
Corte costituzionale
Sentenza 28 febbraio 2023, n. 33
[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 15 dicembre 1990, n. 395 (Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria), promosso dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, in composizione monocratica, nel procedimento vertente tra A.V.F. C. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 16 marzo 2022, iscritta al n. 40 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2022.
Visti l’atto di costituzione dell’INPS, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 24 gennaio 2023 il Giudice relatore Giovanni Amoroso;
uditi l’avvocato Antonella Patteri per l’INPS e l’avvocato dello Stato Pietro Garofoli per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 25 gennaio 2023.
RITENUTO IN FATTO
1.- Con ordinanza del 16 marzo 2022 (r. o. n. 40 del 2022), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 15 dicembre 1990, n. 395 (Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria), nella parte in cui non prevede che i criteri di calcolo del trattamento pensionistico, riferito alla quota retributiva della pensione, previsti dall’art. 54, commi 1 e 2, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), siano estesi in favore del personale della Polizia penitenziaria.
1.1.- Il giudice rimettente premette di dover decidere il ricorso proposto in data 30 gennaio 2021, nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e del Ministero della giustizia, da una persona dipendente del Ministero della giustizia e appartenente al Corpo di polizia penitenziaria, cessata dal servizio dal 27 dicembre 2018, avente a oggetto la richiesta di riliquidazione del trattamento pensionistico con applicazione dell’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 in relazione al ricalcolo della parte retributiva del trattamento stesso.
Il rimettente dà atto che nel giudizio a quo si è costituito l’INPS, che ha chiesto di dichiarare la non fondatezza della pretesa in quanto l’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 non sarebbe applicabile al personale del disciolto Corpo degli agenti di polizia penitenziaria, e ha eccepito, in via subordinata, il divieto di cumulo di interessi e rivalutazione.
Il giudice a quo riferisce che, in vista dell’udienza fissata per il 14 dicembre 2021, il ricorrente ha presentato brevi note scritte chiedendo di sollevare la questione di legittimità costituzionale, deducendo la violazione del principio di eguaglianza in ragione della mancata applicazione della norma indicata (l’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973) anche in favore degli appartenenti alla Polizia penitenziaria. Successivamente, in vista dell’udienza cartolare del 1° marzo 2022, il ricorrente ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni, richiamando l’art. 1, comma 101, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), nel frattempo entrata in vigore.
Il giudice a quo espone che il giudizio verte sulla domanda del ricorrente, già in servizio presso il Ministero della giustizia come agente di Polizia penitenziaria, con anzianità di servizio utile al 31 dicembre 1995 inferiore a 18 anni e superiore a 15 anni (17 anni e un mese), volta al riconoscimento del diritto alla riliquidazione del trattamento pensionistico – con riferimento alle quote A e B, calcolate con il sistema misto retributivo/contributivo di cui all’art. 1, comma 12, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) – mediante l’applicazione della più favorevole aliquota di rendimento del 44 per cento, prevista dall’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973.
1.2.- In via preliminare, il rimettente si sofferma sullo ius superveniens, costituito dall’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021, il quale così testualmente dispone: «[a]l personale delle Forze di polizia ad ordinamento civile, in possesso, alla data del 31 dicembre 1995, di un’anzianità contributiva inferiore a diciotto anni, effettivamente maturati, si applica, in relazione alla specificità riconosciuta ai sensi dell’articolo 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, l’articolo 54 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, ai fini del calcolo della quota retributiva della pensione da liquidare con il sistema misto, con applicazione dell’aliquota del 2,44 per cento per ogni anno utile».
Circa la portata applicativa di tale norma sopravvenuta, il rimettente afferma di aderire all’interpretazione secondo cui la più favorevole aliquota del 44 per cento deve ritenersi estesa anche al trattamento pensionistico del personale della Polizia penitenziaria andato in quiescenza entro l’anno appena trascorso, ma con il riconoscimento della decorrenza economica solo a far data dal 1° gennaio 2022.
Pertanto, con decisione parziale, la Corte rimettente ha intanto accolto il ricorso limitatamente al riconoscimento del diritto alla rideterminazione del trattamento pensionistico mediante l’applicazione, sulle quote dello stesso calcolate con il sistema retributivo, dell’aliquota annua del 2,44 per cento a decorrere dal rateo di gennaio 2022.
1.3.- Invece, con riferimento ai ratei a decorrere dal pensionamento ed antecedenti al gennaio 2022, la Corte rimettente solleva la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost, dell’art. 1, comma 4, della legge n. 395 del 1990, nella parte in cui – nel prevedere che al personale del disciolto Corpo degli agenti di custodia (ora: Polizia penitenziaria), facente parte delle Forze di polizia, per quanto non previsto dalla stessa legge, si applichino, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato – non ha esteso l’applicazione dell’art. 54, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 1092 del 1973, riservata ai militari, anche al personale, quali i dipendenti della Polizia penitenziaria, appartenente al comparto sicurezza a ordinamento civile.
Ad avviso del rimettente, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021, permane la rilevanza della questione in quanto, a suo avviso, non sussiste alcun dubbio sul carattere non retroattivo della disposizione sopravvenuta, e non potendo a essa attribuirsi la natura di norma di interpretazione autentica. Da ciò, secondo il giudice a quo consegue che, per quanto riguarda i ratei fino al 31 dicembre 2021, il trattamento pensionistico dei dipendenti collocati in congedo, come il ricorrente, antecedentemente al 1° gennaio 2022, deve essere calcolato secondo il regime vigente all’epoca del pensionamento.
Pertanto, per la determinazione del trattamento pensionistico del ricorrente per il periodo dal 27 dicembre 2018 al 31 dicembre 2021, secondo il giudice a quo, occorre far riferimento alla disciplina vigente per il personale appartenente al Corpo degli agenti di polizia penitenziaria a ordinamento civile.
1.4.- Passando al merito delle censure, il rimettente sostiene che a seguito della riforma del sistema pensionistico di cui alla legge n. 335 del 1995, che ha stabilito il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo di tutti i lavoratori, pubblici e privati, ogni differenza tra personale militare e civile è venuta definitivamente meno.
A tal riguardo, nell’ordinanza di rimessione si evidenzia che l’art. 1, comma 13, della legge n. 335 del 1995 ha fatto salva, in regime transitorio, a favore dei dipendenti che alla data del 31 dicembre 1995 avessero maturato una anzianità contributiva di oltre diciotto anni, la liquidazione della pensione secondo la normativa vigente in base al sistema retributivo, calcolata, quindi, tenendo conto della retribuzione pensionabile, dell’anzianità contributiva e dell’aliquota di rendimento.
Per i dipendenti che alla data del 31 dicembre 1995 avessero, invece, una anzianità inferiore, come nel caso di specie, il trattamento pensionistico viene attribuito con il sistema cosiddetto misto (retributivo/contributivo), in cui le quote di pensione relative alle anzianità acquisite prima del 31 dicembre 1995 sono calcolate secondo il sistema retributivo previgente, mentre quelle riferite alle anzianità successivamente maturate sono computate secondo il sistema contributivo; ciò ai sensi dell’art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995.
Quanto all’ambito di applicazione soggettiva dei criteri di calcolo, previsti dall’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973, ai fini della determinazione della quota retributiva della pensione, come reinterpretati dalla sentenza della Corte dei conti, sezioni riunite in sede giurisdizionale, 4 gennaio 2021, n. 1, il giudice a quo afferma che è pacifica l’operatività di tale disposizione in favore del personale appartenente al solo comparto militare, ivi compreso quello svolgente funzioni di polizia (Arma dei carabinieri e Corpo della guardia di finanza)
Ciò precisato, il rimettente si sofferma sulla disposizione di cui all’art. 61 del d.P.R. n. 1092 del 1973, che ha esteso l’applicabilità delle norme di cui al Capo II e, quindi, anche dell’art. 54 del medesimo decreto, ad alcune categorie di personale a ordinamento civile, ed in particolare ai Vigili del fuoco ed al Corpo forestale, con conseguente applicazione, anche a tale personale, dei criteri previsti dall’art. 54 per la determinazione della quota di pensione calcolata con il criterio retributivo.
Inoltre, l’art. 73, comma 3, del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 443 (Ordinamento del personale del Corpo di polizia penitenziaria, a norma dell’art. 14, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), con particolare riferimento al trattamento pensionistico stabilisce che «[a]l personale proveniente dai ruoli del disciolto Corpo degli agenti di custodia continua ad applicarsi l’articolo 6 della legge 3 novembre 1963, n. 1543»; disposizione quest’ultima che, nel disciplinare l’ammontare del trattamento pensionistico dei sottoufficiali e degli appuntati dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, nonché dei sottoufficiali e dei militari del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza (oggi: Polizia di Stato), del Corpo degli agenti di custodia e del personale delle corrispondenti categorie del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e del Corpo forestale dello Stato, prevedeva che la pensione fosse «ragguagliata, al compimento del ventesimo anno di servizio, al 44 per cento della base pensionabile» (comma 2 dell’art. 6 della legge 3 novembre 1963, n. 1543, recante «Norme sugli organici e sul trattamento economico dei sottufficiali e militari di truppa dell’Arma del carabinieri, del Corpo della guardia di finanza, del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza, del Corpo degli agenti di custodia, del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e del Corpo forestale dello Stato») e che, «[p]er ciascun anno di servizio oltre il ventesimo e per non più di dieci anni successivamente compiuti, la pensione sarà aumentata del 3,60 per cento» (comma 3 dell’art. 6 della legge n. 1543 del 1963).
Osserva, poi, il rimettente che nulla è, invece, previsto per i dipendenti cessati dal servizio con una anzianità inferiore a venti anni, per i quali occorre, dunque, far riferimento, stante il rinvio contenuto nella norma censurata al testo unico sugli impiegati civili dello Stato, all’art. 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973, secondo cui «[l]a pensione spettante al personale civile con l’anzianità di quindici anni di servizio effettivo è pari al 35 per cento della base pensionabile; detta percentuale è aumentata di 1,80 per ogni ulteriore anno di servizio utile fino a raggiungere il massimo dell’ottanta per cento».
Alla luce di tale quadro normativo, il rimettente conclude che, nella fattispecie al suo esame, con riferimento al trattamento pensionistico del personale appartenente alla Polizia penitenziaria che alla data del 31 dicembre 1995, avesse maturato una anzianità inferiore ai 18 anni, è stata fatta applicazione per il calcolo della quota retributiva di un criterio meno favorevole, previsto dall’art. 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per il personale civile, rispetto a quello applicabile ai militari.
Tale assetto normativo, ad avviso del giudice a quo, determina una ingiustificata lacuna con una portata discriminatoria nei confronti del personale del Corpo degli agenti di polizia penitenziaria, a fronte della specialità delle funzioni svolte da tale personale, e di mansioni molto simili a quelle del personale delle altre Forze di polizia a ordinamento militare (Arma dei carabinieri e Corpo della guardia di finanzia).
Tale lacuna sarebbe stata solo parzialmente colmata dalla disposizione di cui all’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021, restando escluso dal nuovo sistema di calcolo il trattamento pensionistico dal momento del pensionamento fino al 31 dicembre 2021.
La disposizione censurata violerebbe l’art. 3 Cost. «inteso quale canone di ragionevolezza in virtù del quale devono intendersi non conformi a Costituzione le scelte legislative che comportino discriminazioni intollerabili fra situazion[i] similari».
Vi sarebbe – secondo la Corte rimettente – una disparità di trattamento in danno del personale della Polizia penitenziaria.
Anche se la legge n. 395 del 1990 ha previsto la cosiddetta smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia e la soppressione del ruolo delle vigilatrici penitenziarie, istituendo il Corpo della polizia penitenziaria, facente parte delle Forze di polizia a ordinamento civile, si tratta pur sempre di un Corpo al quale la legge ha attribuito il compito di garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari e delle strutture del Ministero della giustizia in materia di osservazione e trattamento rieducativo dei detenuti e degli internati, traduzione e piantonamento dei detenuti e degli internati in luoghi di cura, collaborando con l’Ufficio di sorveglianza e l’Ufficio del pubblico ministero.
Ad avviso del rimettente, l’intervento legislativo ha mantenuto ferme le peculiarità del personale appartenente a tale Corpo, rispetto allo stesso personale civile dipendente dal medesimo Ministero della giustizia.
Quanto alla specifica disciplina relativa alla materia pensionistica, il giudice a quo osserva che il legislatore della riforma del trattamento di quiescenza dei dipendenti dello Stato, attuata con il d.P.R. n. 1092 del 1973, ha previsto un regime differenziato per il personale civile e quello militare, per la peculiarità delle funzioni svolte dalle due categorie, che trova conferma nel diverso sistema di calcolo del trattamento pensionistico, all’epoca commisurato su una percentuale dell’ultima retribuzione percepita (la cosiddetta base pensionabile), regolato dall’art. 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per il personale civile – che prevede l’applicazione di una percentuale del 35 per cento della base pensionabile, aumentata di 1,80 per ogni ulteriore anno di servizio utile fino a raggiungere l’80 per cento – e dall’art. 54 del medesimo d.P.R. n. 1092 del 1973 per il personale militare, che invece prevede l’applicazione di una percentuale del 44 per cento della base pensionabile, aumentata del 1,80 per cento per ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo.
Non di meno – osserva la Corte rimettente – risulterebbe evidente che il legislatore, ferma la distinzione tra lo stato civile e quello militare, avesse chiara l’esigenza di prevedere un regime differenziato in ragione delle funzioni svolte anche per altre categorie di dipendenti pubblici.
In tal senso deporrebbe l’estensione al Corpo nazionale dei vigili del fuoco e al Corpo forestale – operata dall’art. 61 del d.P.R. n. 1092 del 1973 – delle norme di cui al Capo II, in materia pensionistica; estensione al personale del comparto sicurezza che, invece, non era necessaria perché all’epoca il Corpo degli agenti di custodia (oggi: Polizia penitenziaria) rientrava nel comparto militare.
L’irragionevolezza di questo trattamento, risultato differenziato dopo la smilitarizzazione del Corpo, sarebbe evidente – secondo la Corte rimettente – là dove è rimasta l’applicazione del regime più favorevole al Corpo forestale e ai Vigili del fuoco, appartenenti al comparto rispettivamente del soccorso pubblico e della tutela del patrimonio agro-forestale.
A tal riguardo, ad avviso del rimettente, le funzioni degli appartenenti alla Polizia penitenziaria, pur contenute nel mondo carcerario, debbono senz’altro ascriversi alla categoria della “sicurezza” al pari della Polizia di Stato, a ordinamento civile, dell’Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza, a ordinamento militare.
Infine, il rimettente si sofferma sulla evoluzione normativa della disciplina in tema di trattamento pensionistico che ha visto estendere al personale della Polizia penitenziaria principi ed istituti riservati al personale militare, ed in particolare: 1) l’art. 56, comma 3, del d.lgs. n. 443 del 1992, il quale prevede che al personale del Corpo di polizia penitenziaria, ai soli fini dell’acquisizione del diritto al trattamento di pensione normale, si applica l’art. 52 del d.P.R. n. 1092 del 1973, applicabile al personale militare; 2) l’art. 2177 e seguenti del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), in virtù dei quali si estendono al personale delle Forze di polizia a ordinamento civile e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco alcune disposizioni in tema di trattamento previdenziale previste per il personale militare.
1.5.- In conclusione, il rimettente ha riconosciuto con sentenza parziale, a decorrere dal rateo di gennaio del 2022, il diritto del ricorrente alla riliquidazione della pensione con l’applicazione, sulle quote calcolate con il sistema retributivo, dell’aliquota annua del 2,44 per cento con conseguente diritto agli arretrati, costituiti dalla differenza dei ratei pregressi, maggiorati, a decorrere dalla scadenza dei singoli ratei, degli interessi legali e, nei limiti dell’eventuale maggior importo differenziale, della rivalutazione monetaria, calcolata anno per anno secondo gli indici ISTAT.
Contestualmente, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge n. 395 del 1990, in riferimento all’art. 3 Cost., nei termini indicati, disponendo la sospensione del giudizio con riferimento alla domanda di riconoscimento degli arretrati a decorrere dalla data della cessazione dal servizio.
2.- Con atto del 16 maggio 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, nel merito non fondata.
In primo luogo, la difesa statale ha eccepito l’inammissibilità della questione per erronea individuazione della norma censurata.
A tal riguardo, l’Avvocatura generale osserva che il rimettente ha censurato l’art. 1, comma 4, della legge n. 395 del 1990, che applica alla Polizia penitenziaria, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato, mentre la pretesa illegittimità costituzionale è in realtà riferita al calcolo della quota retributiva delle pensioni nei confronti di coloro che hanno maturato un’anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 inferiore a 18 anni. Il vulnus costituzionale sarebbe, invece, riconducibile, unicamente, alla irretroattività dell’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021, che estende al personale delle Forze di polizia a ordinamento civile l’applicazione dell’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973.
In proposito, osserva che il comma 4 dell’art. 1 della legge n. 395 del 1990 si limiterebbe a statuire che al personale appartenente ai ruoli della Polizia penitenziaria si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato, senza nulla disporre in merito al “regime pensionistico” applicabile a tali dipendenti e, in particolare, ai criteri di calcolo della quota «retributiva» della pensione a essi spettante. Ed invero, tali criteri di calcolo sono previsti agli artt. 44 e 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973.
Ad avviso della difesa statale, il rimettente avrebbe dovuto censurare la norma previdenziale ritenuta applicabile (in ipotesi, l’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021 e l’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973) e non certamente il comma 4 dell’art. 1 della legge n. 395 del 1990.
Il giudice a quo sarebbe, dunque, incorso nel vizio di aberratio ictus che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, determina l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.
2.1.- Nel merito, la difesa statale osserva che la questione sarebbe comunque da ritenersi non fondata.
Richiamando alcune pronunce di questa Corte, l’Avvocatura generale afferma che la diversità del trattamento previdenziale tra le Forze di polizia “a ordinamento civile” e quelle a “ordinamento militare” appare del tutto ragionevole in considerazione delle differenze che connotano il rapporto di impiego delle due categorie di personale (sono richiamate anche la sentenza n. 170 del 2019 e l’ordinanza n. 168 del 1995, nonché le sentenze n. 96 del 1980 e n. 3 del 1957).
Pertanto, proprio tale specificità renderebbe non arbitraria la scelta del legislatore con riferimento ai criteri di calcolo della quota retributiva della pensione spettante alle due diverse categorie di personale.
3.- Con atto del 16 maggio 2022, si è costituito in giudizio l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, non fondata.
In via preliminare, l’Istituto ha eccepito l’inammissibilità della questione per la contraddittorietà della impostazione data dal rimettente alla rilevanza del quadro normativo di riferimento e, in particolare, al rapporto, ai fini del decidere, fra l’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e l’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021.
Nel merito, l’Istituto sottolinea che il giudice a quo – nel soffermarsi su aspetti che accomunano l’azione dei militari e quella degli agenti di custodia, evidenziando che la Polizia penitenziaria è un Corpo armato con funzione di tutela della sicurezza pubblica – ha però trascurato di considerare gli aspetti che differenziano l’attività dell’agente penitenziario da quella del militare.
In particolare, quanto al raffronto tra Polizia penitenziaria e Vigili del fuoco ed ex Corpo forestale, l’Istituto osserva che si tratta di scelte rimesse alla discrezionalità del legislatore dal momento che le funzioni, le mansioni e le prerogative dei corpi deputati ad assicurare i vari aspetti della sicurezza pubblica non sono affatto uguali; il fatto che la Polizia penitenziaria sia compresa nel comparto sicurezza non significa che il suo ordinamento debba essere identico a quello dei militari.
In tale verso, l’INPS osserva che i profili di similitudine tra la posizione dei militari e quella degli appartenenti alle Forze di polizia a ordinamento civile sono stati considerati e specificamente disciplinati dal legislatore, come, ad esempio, l’accesso alla pensione privilegiata, istituto che opera tanto per i militari quanto per gli altri corpi impegnati in compiti di sicurezza.
Infine, nell’atto di costituzione l’Istituto evidenzia che l’aliquota del 2,44 per cento, individuata dalla giurisprudenza contabile a ventisette anni dall’entrata in vigore della legge n. 335 del 1995 e successivamente recepita nell’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021, costituisce un trattamento di favore, sicuramente eccezionale, insuscettibile di estensione analogica e di applicazione retroattiva.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Con l’ordinanza indicata in epigrafe (r. o. n. 40 del 2022), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge n. 395 del 1990, nella parte in cui non prevede che i criteri di calcolo del trattamento pensionistico, riferito alla quota retributiva della pensione, previsti dall’art. 54, commi 1 e 2, del d.P.R. n. 1092 del 1973, siano estesi in favore del personale della Polizia penitenziaria.
1.1.- Il giudizio a quo verte sulla domanda del ricorrente – agente di Polizia penitenziaria, in pensione dal 27 dicembre 2018, con una anzianità utile al 31 dicembre 1995 inferiore a 18 anni e superiore a 15 anni (17 anni e un mese) – volta al riconoscimento del diritto alla riliquidazione del trattamento pensionistico, con riferimento alle quote A e B, calcolate con il sistema misto retributivo/contributivo di cui all’art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995, mediante l’applicazione dell’aliquota di rendimento del 44 per cento, prevista dall’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per il personale a ordinamento militare.
Il rimettente dà atto che nelle more del procedimento è entrato in vigore l’art. 1, comma 101, della legge di bilancio per l’anno finanziario 2022, il quale testualmente dispone: «[a]l personale delle Forze di polizia ad ordinamento civile, in possesso, alla data del 31 dicembre 1995, di un’anzianità contributiva inferiore a diciotto anni, effettivamente maturati, si applica, in relazione alla specificità riconosciuta ai sensi dell’articolo 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, l’articolo 54 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092, ai fini del calcolo della quota retributiva della pensione da liquidare con il sistema misto, con applicazione dell’aliquota del 2,44 per cento per ogni anno utile».
Tale disposizione deve essere interpretata – secondo il giudice rimettente – nel senso che essa stabilisce l’«estensione del miglior trattamento previdenziale anche al personale de quibus andato in pensione entro l’anno appena trascorso, ma con il riconoscimento della decorrenza economica solo a far data dal 1.1.2022».
In riferimento, invece, alla domanda volta a ottenere il diritto al riconoscimento dei ratei a decorrere dal pensionamento ed antecedenti al gennaio 2022, il rimettente afferma di dover applicare l’art. 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973, e ciò per effetto della norma censurata di cui all’art. 1, comma 4, della legge n. 395 del 1990, secondo cui «[p]er tutto quanto non espressamente disciplinato nella presente legge, si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato».
Il citato art. 44 prevede che la pensione spettante al personale civile con l’anzianità di quindici anni di servizio effettivo è pari al 35 per cento della base pensionabile e che detta percentuale è aumentata di 1,80 per ogni ulteriore anno di servizio utile fino a raggiungere il massimo dell’ottanta per cento.
Il rimettente evidenzia, dunque, che la disposizione censurata, rinviando alle norme sugli impiegati civili dello Stato, e quindi all’art. 44 citato, impedisce, nella fattispecie, l’applicazione della disciplina più favorevole prevista dall’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per il personale a ordinamento militare; disposizione, questa, che stabilisce che la pensione spettante al militare che abbia maturato almeno quindici anni e non più di venti anni di servizio utile è pari al 44 per cento della base pensionabile e tale percentuale è aumentata di 1,80 per cento ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo.
In riferimento a questa disciplina differenziata, per il personale a ordinamento civile e quello a ordinamento militare, il giudice rimettente afferma che la norma censurata contrasterebbe con l’art. 3 Cost., in quanto – dovendosi escludere la portata interamente retroattiva dell’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021 – determina che, per il calcolo della quota retributiva della pensione del personale a ordinamento civile, quale è quello appartenente alla polizia penitenziaria, dalla data del pensionamento fino al 31 dicembre 2021, trovi applicazione il meno favorevole trattamento di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973.
Ad avviso del rimettente, tale assetto normativo comporta un’ingiustificata disparità di trattamento pensionistico sia rispetto alle Forze di polizia a ordinamento militare (Guardia di finanza e Arma dei carabinieri), sia rispetto al personale a ordinamento civile, quale quello del Corpo dei vigili del fuoco e di quello forestale, appartenenti al comparto rispettivamente del soccorso pubblico e della tutela del patrimonio agro-forestale, ai quali l’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 si applica per effetto della estensione operata espressamente dall’art. 61 del medesimo decreto.
2.- In via preliminare va rilevato che il giudice a quo, nel sollevare la questione di legittimità costituzionale, ha contestualmente riconosciuto, con sentenza parziale, il diritto del ricorrente, a decorrere dal rateo di gennaio del 2022, alla riliquidazione della pensione con l’applicazione, sulla quota calcolata con il sistema retributivo, dell’aliquota annua del 2,44 per cento, in applicazione dell’art. 1, comma 101, della legge di bilancio 2022.
Invece, con riferimento al periodo precedente, a decorrere dal pensionamento del ricorrente (27 dicembre 2018) e fino a tutto il 2021, il rimettente ha sollevato questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata, stabilendo la sospensione del giudizio principale, limitatamente alla domanda di riconoscimento delle differenze di trattamento pensionistico secondo il più favorevole criterio di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non inficia la corretta instaurazione del giudizio di legittimità la contestuale adozione di una sentenza parziale (non definitiva) e dell’ordinanza di rimessione della questione, sempre che rimanga ancora da decidere, nel giudizio principale, una parte dell’originario oggetto della domanda o del thema decidendum e che il giudice rimettente non abbia, in realtà, deciso interamente la controversia (ex plurimis, sentenze n. 208 del 2019, n. 86 del 2017 e n. 94 del 2009; ordinanza n. 22 del 2023).
Nella fattispecie è ben chiaro che è ancora sub iudice la spettanza, o no, della riliquidazione del trattamento pensionistico, con applicazione della più favorevole aliquota prevista dall’art. 54 citato, nel periodo a decorrere dal pensionamento del ricorrente (27 dicembre 2018) e fino a tutto il 2021; ciò che è tuttora controverso tra le parti.
3.- Prima di affrontare il merito delle censure, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità sollevate dalle parti.
3.1.- La difesa dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza della questione perché il rimettente sarebbe incorso in una aberratio ictus.
In primo luogo, l’Avvocatura generale ha dedotto che la disposizione denunciata non sarebbe pertinente in quanto le censure formulate in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost. si riferiscono ai criteri di calcolo della base pensionabile, i quali, invero, sono previsti nelle disposizioni di cui agli artt. 44 e 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973, rispettivamente per il personale civile e per quello militare.
L’eccezione non ha fondamento.
È ben vero che il rimettente, testualmente, censura l’art. 1, comma 4, della legge n. 395 del 1990, che non concerne i criteri di calcolo della base pensionabile. Tuttavia, dal complesso motivazionale dell’ordinanza di rimessione risulta, con chiarezza, che le doglianze si indirizzano nei confronti della suddetta norma solo nella misura in cui – per effetto del rinvio da essa operato alla disciplina relativa agli impiegati civili dello Stato – rende applicabile l’art. 44 del d.P.R. n. 1092 del 1973, quanto alla determinazione della base pensionabile al fine del calcolo del trattamento pensionistico spettante al personale in quiescenza, e non invece il successivo art. 54, recante più favorevoli criteri di calcolo della pensione per il personale militare.
Nel caso di specie, gli argomenti addotti dal rimettente a sostegno delle censure sono idonei a illustrarne il senso e ricostruiscono il quadro normativo di riferimento in modo da consentire a questa Corte lo scrutinio del merito (ex plurimis, sentenze n. 214 del 2022 e n. 194 del 2021).
3.2.- La difesa dello Stato ha, altresì, eccepito l’inammissibilità della questione per aberratio ictus, perché il rimettente avrebbe dovuto censurare l’art. 1, comma 101, della legge di bilancio 2022, sotto il profilo della portata irretroattiva della disposizione, sopravvenuta nel corso del giudizio principale.
Parimenti, l’INPS ha dedotto l’erronea individuazione della disposizione censurata, perché il rimettente, pur individuando nell’art. 1, comma 101, della suddetta legge finanziaria la disposizione regolatrice della fattispecie, ha invece censurato la norma che ha disposto la cosiddetta smilitarizzazione degli agenti di custodia.
Anche tale eccezione non è fondata.
Il giudice a quo, mostrando di aderire all’orientamento della giurisprudenza contabile secondo cui la citata disposizione della legge di bilancio 2022 si applica (ex nunc) ai ratei pensionistici decorrenti dal gennaio del 2022 e non anche per il periodo precedente, consapevolmente non pone alcuna questione sulla portata applicativa non retroattiva dello ius superveniens, della cui legittimità costituzionale non dubita, e censura invece la mancata previsione ab origine – ossia fin dal momento della smilitarizzazione del Corpo di polizia penitenziaria – della applicazione della disposizione di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 quanto al criterio di calcolo della base pensionabile e quindi dell’ammontare del trattamento pensionistico.
Ciò basta, in termini di plausibilità, a escludere che si versi, anche sotto questo ulteriore profilo, in ipotesi di aberratio ictus.
3.3.- Deve essere del pari disattesa l’ulteriore eccezione di inammissibilità sollevata dall’INPS, sul rilievo che la questione investirebbe un ambito, quello relativo alla regolazione di aspetti previdenziali degli appartenenti alle Forze di polizia, riservato alla discrezionalità del legislatore.
Il profilo evidenziato è, in realtà, relativo al merito della questione, anziché alla sua ammissibilità, poiché appartiene al confronto tra la disposizione censurata e il parametro evocato (sentenze n. 137 del 2020, n. 233 del 2019 e n. 41 del 2018).
3.4.- Sussiste, quindi, la rilevanza della questione sollevata, la quale – essendo altresì sufficientemente motivata la sua non manifesta infondatezza – è ammissibile in rito.
4.- La questione sollevata dal giudice rimettente si colloca nel contesto dell’avvenuta smilitarizzazione della Polizia penitenziaria.
Sulla scia della già operata smilitarizzazione della Polizia di Stato – con legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), il cui art. 23, quinto comma, ha previsto che al personale appartenente ai ruoli dell’amministrazione della pubblica sicurezza si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato – la successiva legge n. 395 del 1990 ha sciolto il Corpo degli agenti di custodia, sopprimendo anche il ruolo delle vigilatrici penitenziarie (art. 2) – al quale si applicava la legge (e la giurisdizione) militare (art. 2 del decreto legislativo 21 agosto 1945, n. 508, recante «Modificazioni all’ordinamento del Corpo degli agenti di custodia delle carceri») – ed ha istituito il Corpo di polizia penitenziaria a ordinamento civile (art. 1, comma 1).
In parallelismo con quanto già previsto per la Polizia di Stato, il successivo comma 4 ha, infatti, stabilito che al neoistituito Corpo di polizia penitenziaria si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato. Il parallelismo risulta altresì dall’espressa previsione che il Corpo di polizia penitenziaria fa parte delle Forze di polizia (art. 1, comma 3).
Esercitando la delega per provvedere alla determinazione dell’ordinamento del personale del Corpo di polizia penitenziaria, da armonizzare alle previsioni dettate per l’assetto retributivo-funzionale del personale statale civile dei ministeri (art. 14 della legge n. 395 del 1990), il legislatore delegato – nel dettare l’ordinamento del personale di tale Corpo di polizia – ha confermato che a esso si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato (art. 131 del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 443, recante «Ordinamento del personale del Corpo di polizia penitenziaria, a norma dell’art. 14, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395»).
Istituito, quindi, come Corpo di polizia a ordinamento civile, la Polizia penitenziaria è stata incardinata nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia.
Benché la smilitarizzazione della Polizia penitenziaria non abbia implicato anche la contrattualizzazione del rapporto di lavoro (Corte di cassazione, sezioni unite civili, ordinanza 24 marzo 2010, n. 6997), si tratta pur sempre di un rapporto di lavoro a ordinamento civile, anche se con marcate peculiarità (quanto ad esempio al rapporto gerarchico e alle mansioni), che tradiscono la derivazione dal Corpo degli agenti di custodia a ordinamento militare.
5.- Fatta questa premessa sull’appartenenza della Polizia penitenziaria al personale civile dello Stato, va ora esaminata nel merito la questione, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
La questione non è fondata.
6.- Va rimarcata innanzi tutto la distinzione, quanto al trattamento pensionistico, tra il personale a ordinamento civile e quello a ordinamento militare.
Ciò risulta chiaramente dal testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato (d.P.R. n. 1092 del 1973), che distingue nettamente, salvo che nelle disposizioni generali, tra il personale civile (Capo I del Titolo III della Parte I) e quello militare (successivo Capo II).
In particolare, focalizzando l’esame comparato solo su quanto rileva nella controversia di cui al giudizio a quo, diversa è la misura del trattamento normale previsto, per l’uno e l’altro personale, rispettivamente dall’art. 44 per quello civile e dall’art. 54 per quello militare.
L’art. 44, primo comma, stabilisce che la pensione spettante al personale civile con l’anzianità di quindici anni di servizio effettivo è pari al 35 per cento della base pensionabile; detta percentuale è aumentata del 1,80 per cento per ogni ulteriore anno di servizio utile fino a raggiungere il massimo dell’80 per cento.
In simmetria, l’art. 54, primo e secondo comma, prevede che la pensione spettante al militare che abbia maturato almeno quindici anni e non più di venti anni di servizio utile è pari al 44 per cento della base pensionabile. Tale percentuale è aumentata del 1,80 per cento per ogni anno di servizio utile oltre il ventesimo. Anche la pensione così determinata non può superare l’80 per cento della base pensionabile.
Sotto questo profilo, il trattamento pensionistico risulta più favorevole per il personale militare in ragione della base pensionabile più elevata (44 per cento in luogo di 35 per cento), che il dipendente ottiene al compimento dell’età minima pensionabile.
Al personale militare viene riconosciuta, già al raggiungimento dell’anzianità di quindici anni di servizio, la medesima percentuale di base pensionabile che lo stesso conseguirebbe a venti anni di anzianità con una sorta di fictio operante nel quinquennio tra i quindici e i venti anni di anzianità.
Il personale a ordinamento civile, invece, non si giova di ciò e quindi, partendo da una più bassa percentuale di base pensionabile (35 per cento) al quindicesimo anno di anzianità, raggiunge il livello del 44 per cento solo al ventesimo anno.
C’è poi – quale ulteriore differenziazione – che nell’ipotesi ancora più specifica in cui il militare cessi dal servizio permanente o continuativo per raggiungimento del limite di età, senza aver maturato l’anzianità di almeno quindici anni di servizio utile, di cui dodici di servizio effettivo, allora la pensione è pari al 2,20 per cento della base pensionabile per ogni anno di servizio utile.
7.- Su questo sistema ha inciso la riforma dei trattamenti pensionistici di cui alla legge n. 335 del 1995, la quale in particolare, all’art. 1, comma 12, ha previsto che per i lavoratori iscritti alle forme di previdenza di cui al comma 6, che alla data del 31 dicembre 1995 possono far valere un’anzianità contributiva inferiore a diciotto anni, la pensione è determinata dalla somma: a) della quota di pensione corrispondente alle anzianità acquisite anteriormente al 31 dicembre 1995 calcolata, con riferimento alla data di decorrenza della pensione, secondo il sistema retributivo previsto dalla normativa vigente precedentemente alla predetta data; b) della quota di pensione corrispondente al trattamento pensionistico relativo alle ulteriori anzianità, calcolato secondo il sistema contributivo.
È questo il cosiddetto criterio misto che – in regime transitorio a esaurimento – vede una quota di pensione, calcolata con il criterio retributivo, concorrere con una quota calcolata con il sistema contributivo.
Invece – stabilisce il comma 13 dell’art. 1 citato – per i lavoratori già iscritti alle forme di previdenza di cui al precedente comma 6 che alla data del 31 dicembre 1995 possono far valere un’anzianità contributiva di almeno diciotto anni, la pensione è interamente liquidata secondo la normativa vigente in base al sistema retributivo.
Tale regola del criterio misto, applicabile nella controversia di cui al giudizio a quo, ha in particolare inciso – stante l’adozione, come spartiacque temporale, della durata dell’anzianità di servizio (fino a diciotto anni al 31 dicembre 1995) – proprio sul meccanismo di calcolo della percentuale della base pensionabile del personale a ordinamento militare, perché siffatta linea di demarcazione si colloca all’interno dell’intervallo (quindici/venti anni di anzianità) in cui opera il criterio dell’art. 54. La fictio di favore per il personale militare – per cui esso, appena raggiungeva l’anzianità di quindici anni, maturava subito (e quindi anticipatamente) la stessa percentuale di base pensionabile che avrebbe conseguito con venti anni di anzianità (ossia il 44 per cento) – doveva misurarsi con la concorrente (ma sopravvenuta) regola secondo cui il calcolo su base retributiva valeva (ex art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995) solo per l’anzianità fino a diciotto anni alla data del 31 dicembre 1995, ma non anche per quella maturata successivamente a tale data (così come è quella del ricorrente nel giudizio a quo, rimasto a lungo in servizio fino al 27 dicembre 2018) e quindi, in particolare, neppure per quella da diciotto a venti anni per colmare la forbice prevista dall’art. 54.
8.- In proposito, varie interpretazioni sono state prospettate in giurisprudenza, originando un contrasto che alla fine è stato composto dalle sezioni riunite in sede giurisdizionale della Corte dei conti (sentenza n. 1 del 2021).
Secondo tale pronuncia, che sul punto costituisce diritto vivente, «la “quota retributiva” della pensione da liquidarsi con il sistema “misto”, ai sensi dell’articolo 1, comma 12, della legge n. 335/1995, in favore del personale militare cessato dal servizio con oltre 20 anni di anzianità utile ai fini previdenziali e che al 31 dicembre 1995 vantava un’anzianità ricompresa tra i 15 ed i 18 anni, va calcolata tenendo conto dell’effettivo numero di anni di anzianità maturati al 31 dicembre 1995, con applicazione del relativo coefficiente per ogni anno utile determinato nel 2,44%».
In questi termini, quindi, dopo la riforma del 1995 la regola dell’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 ha assunto una portata calibrata sul concorrente criterio – quello del sistema “misto” – di calcolo della quota retributiva della pensione per il personale militare con un’anzianità di servizio non inferiore a diciotto anni.
Di questa regola, riveniente dall’art. 54 come interpretato dalla giurisprudenza, il giudice rimettente vorrebbe fare applicazione anche al personale di Polizia penitenziaria fin dalla smilitarizzazione del 1990 (legge n. 395 del 1990), ossia fin dal suo passaggio all’ordinamento civile, e ha quindi chiesto a questa Corte, come petitum dell’ordinanza di rimessione, di estendere il beneficio eliminando questa differenziazione, tra personale civile e militare, che ritiene essere ingiustificatamente discriminatoria.
In questa prospettiva, il giudice rimettente ha sì registrato la recente modifica in melius (per il ricorrente) del trattamento pensionistico in ragione dello ius superveniens in corso di causa, costituito dall’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021; disposizione questa che – come già ricordato – ha esteso al personale delle Forze di polizia a ordinamento civile (e quindi anche a quello della Polizia penitenziaria), in possesso, alla data del 31 dicembre 1995, di un’anzianità contributiva inferiore a diciotto anni, effettivamente maturati, l’applicazione dell’art. 54 citato ai fini del calcolo della quota retributiva della pensione da liquidare con il sistema misto, con applicazione dell’aliquota del 2,44 per cento per ogni anno utile.
Ma giustamente il rimettente ha ritenuto che tale disposizione, entrata in vigore il 1° gennaio 2022, trovi applicazione non retroattiva, nel senso che la riliquidazione del trattamento pensionistico opera solo a partire dal rateo di gennaio 2022, la cui spettanza egli ha già riconosciuto al ricorrente con sentenza non definitiva, contestuale all’ordinanza di rimessione. Ciò il rimettente ha fatto senza negare, né contestare, che lo ius superveniens non preveda anche il mancato ricalcolo ex tunc della pensione, ossia dal giorno della sua spettanza (nella specie, dal dicembre 2018). Pertanto, per logica inferenza secondo la corretta prospettazione del giudice rimettente, le censure sono rimaste dirette alla norma sulla smilitarizzazione del Corpo, la quale, secondo il medesimo rimettente, avrebbe dovuto far salva, fin dall’inizio (1990), l’applicazione dell’art. 54 citato come trattamento di miglior favore.
9.- Vi è, in vero, una riconosciuta specificità del ruolo delle Forze di polizia (art. 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, recante «Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro»), in ragione dei «peculiari requisiti di efficienza operativa richiesti e i correlati impieghi in attività usuranti»; e ciò vale anche per la Polizia penitenziaria, che, come detto, fa parte delle Forze di polizia (art. 1, comma 3, della legge n. 395 del 1990).
Questa riconosciuta specialità ha comportato, ad esempio, che a tutto il personale appartenente al comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico sono stati conservati gli istituti dell’accertamento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata (art. 6 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, recante «Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici», convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214). In tal modo, così delimitata la platea dei beneficiari di tali trattamenti previdenziali, rispetto alla originaria inclusione di dipendenti statali e di quelli militari (articoli da 64 a 67 del d.P.R. n. 1092 del 1973), si è creata una disciplina differenziata di favore, anche per il «comparto sicurezza», senza che la generale esclusione del personale a ordinamento civile ridondasse – ha ritenuto questa Corte (sentenza n. 20 del 2018) – in violazione del principio di eguaglianza.
Ma anche altri punti di convergenza di discipline sono rinvenibili nell’ordinamento.
Pur maggiormente risalente, vi è la speciale rilevanza del personale del servizio antincendi e del Corpo forestale, che ha giustificato la conservazione di istituti del trattamento di quiescenza dei dipendenti militari dello Stato (art. 61 del d.P.R. n. 1092 del 1973).
Del resto, per lo stesso personale della Polizia penitenziaria, nella fase di transizione per effetto della smilitarizzazione, si sono previste disposizioni speciali in materia di trattamento pensionistico (artt. 56 e 73 del d.lgs. n. 443 del 1992).
Inoltre, nel codice dell’ordinamento militare sono state rese applicabili al personale delle Forze di polizia a ordinamento civile specifiche disposizioni previdenziali per le invalidità di servizio (artt. 2177 e seguenti del d.lgs. n. 66 del 2010).
Più recentemente, come già ricordato, la legge di bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 ha esteso al personale delle Forze di polizia a ordinamento civile, e quindi anche a quello della Polizia penitenziaria, la particolare modalità di calcolo della quota retributiva riconosciuta, in via transitoria e a esaurimento, al personale a ordinamento militare che possa far valere, alla data del 31 dicembre 1995, un’anzianità contributiva inferiore a diciotto anni.
In definitiva, il legislatore ha operato, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità in materia (ex plurimis, sentenza n. 250 del 2017), mirati ed espliciti allineamenti di disciplina senza che per ciò venga meno la generale non comparabilità del trattamento pensionistico del personale a ordinamento civile con quello a ordinamento militare.
10.- In un più generale contesto in cui compete al legislatore, nel preminente rispetto dei diritti fondamentali, la razionalizzazione dei sistemi previdenziali, operazione quest’ultima che postula valutazioni e bilanciamenti di interessi contrapposti (ex plurimis, sentenza n. 202 del 2008 e, da ultimo, sentenza n. 214 del 2022), le posizioni del personale a ordinamento civile e quello a ordinamento militare non sono comparabili quanto al criterio di calcolo della base pensionabile nel sistema “misto” della richiamata riforma del 1995.
In particolare, con la recente sentenza n. 270 del 2022 questa Corte ha dichiarato la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale – sollevata peraltro dallo stesso odierno giudice rimettente in riferimento alla dedotta violazione dell’art. 3 Cost. – degli artt. 13 e 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973, nella parte in cui non prevedono, e dunque non consentono, l’applicazione anche ai funzionari della Polizia di Stato del computo gratuito ai fini pensionistici degli anni di durata legale del corso di laurea richiesto per l’accesso alle rispettive carriere; beneficio previsto invece per gli ufficiali dei Corpi militari dello Stato e, dunque, anche per quelli dell’Arma dei carabinieri.
Segnatamente, questa Corte ha affermato che, pur in presenza di interventi legislativi volti a un allineamento del regime ordinamentale del personale appartenente al comparto sicurezza, non può essere configurato nell’ordinamento un principio di piena omogeneità di regolazione fra personale militare e personale civile del comparto di pubblica sicurezza e ha evidenziato che «persist[e] la strutturale diversità tra i rispettivi status che determina differenti soluzioni sul piano normativo e che è all’origine della dicotomia nelle discipline previdenziali fra impiego civile e impiego militare presente nel d.P.R. n. 1092 del 1973».
Con tale pronuncia la Corte ha dato continuità alla propria giurisprudenza, già affermata con l’ordinanza n. 168 del 1995, nella quale «si è ritenuto che il legislatore, nello stabilire per il personale civile dello Stato, a differenza che per quello militare, l’onerosità del riscatto, avesse correttamente esercitato tale discrezionalità, in relazione alle peculiarità proprie dell’impiego militare rispetto a quello civile» (in senso conforme, in precedenza, vedi anche l’ordinanza n. 847 del 1988).
La specificità dell’ordinamento militare è stata altresì sottolineata da questa Corte (sentenza n. 120 del 2018) anche con riferimento alla esclusione di «forme associative ritenute non rispondenti alle conseguenti esigenze di compattezza ed unità degli organismi che tale ordinamento compongono», riconoscendo però che i militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; ma non possono aderire ad altre associazioni sindacali.
11.- In conclusione, non vi è, nella fattispecie, una disciplina discriminatoria, come si assume nell’ordinanza di rimessione.
Il più favorevole trattamento riservato al personale militare – quanto al calcolo della quota retributiva della pensione nel sistema cosiddetto misto della riforma del 1995, come risultante dal combinato disposto dell’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973 e dell’art. 1, comma 12, della legge n. 335 del 1995, nell’interpretazione accolta dalla citata giurisprudenza delle sezioni riunite della Corte dei conti – non può assurgere a tertium comparationis, idoneo a implicare, sul piano della conformità all’art. 3 Cost., la necessaria estensione fin dall’epoca della smilitarizzazione (e quindi ex tunc) di tale normativa speciale al personale della Polizia penitenziaria.
Si ha, quindi, che questa differenziazione, riconducibile al generale diverso regime pensionistico del personale civile e di quello militare, non lede il principio di eguaglianza sì che la sollevata questione di legittimità costituzionale va dichiarata non fondata.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, della legge 15 dicembre 1990, n. 395 (Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.