È un ex sovrintendente capo della polizia in pensione, con in curriculum un sanguinoso conflitto a fuoco, 37 anni di divisa e il titolo di cavaliere conferitogli per meriti sul lavoro. Oggi, che di anni ne ha 61, quell’attestato dove l’onorificienza è scritta in caratteri antichi su carta intestata della Presidenza della Repubblica, e che fino all’altro giorno era motivo d’orgoglio, Aurelio Casciana vuole restituirlo: «Questo Stato non mi rappresenta più», dice, furibondo per il mancato rinnovo del porto d’armi. L’aveva chiesto, come ogni anno, per difesa personale. Gli hanno risposto che i motivi non sussistono, che non corre pericolo anche perché i fatti per i quali Casciana teme ritorsioni sono troppo lontani.
Eppure lui ogni giorno monitora i siti internet dove l’amarcord dei neofascisti resiste. E non abbassa la guardia: «Io ho ucciso un terrorista nero: ho diritto a sentirmi sicuro». Fu uno dei conflitti a fuoco più drammatici avvenuti in provincia di Alessandria, sul finire degli anni di piombo. Era il 24 marzo del 1985: Aurelio Casciana aveva 30 anni, era alle Volanti. Al casello autostradale di San Michele, assieme agli altri colleghi, intercettò la Fiat 127, con a bordo 4 terroristi neri e nel bagagliaio un piccolo arsenale (pistole, fucile, persino una bomba a mano e una baionetta). Il fuoco, al posto di blocco, partì da loro. Una sparatoria tremenda.
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