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Piazzava microcamere nei bagni. Maresciallo Capo dei carabinieri destituito dal servizio

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Era l’aprile del 2015 quando il militare venne processato disciplinarmente.  A sua discolpa sostenne di aver commesso il gesto perché era “sotto forte stress psicologico” e che a seguito di quanto accaduto aveva richiesto l’assistenza del Servizio Psicologico di Milano.

La commissione, in esito al procedimento disciplinare, nel maggio 2015 dispose la perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari, ai sensi degli art. 861 comma 1, lett. d) e 867, comma 5, del d.lgs. 15 marzo 2010 n. 66 (codice dell’ordinamento militare). Nel provvedimento, la condotta del ricorrente veniva qualificata come “contraria ai principi di moralità e di rettitudine che devono improntare l’agire di un militare, ai doveri attinenti al giuramento prestato e a quelli di correttezza ed esemplarità propri dello status di militare e di appartenente all’Arma dei Carabinieri, nonché lesiva del prestigio dell’Istituzione”.↓

La sanzione ebbe effetto retroattivo dal  novembre 2014. Il militare cessò dal servizio permanente e venne iscritto d’ufficio nel ruolo dei militari di truppa dell’Esercito Italiano, senza alcun grado, ai sensi degli art. 923 comma 1, lett.i) e 861 comma 4 del codice dell’ordinamento militare.

Si giunse così al Tar che confermò la decisione dell’Amministrazione. 

I FATTI

Nel settembre 2014, verso le ore 16.00, una collega del militare, rientrando nell’alloggio di servizio in uso esclusivo all’interno della caserma, rinveniva nel bagno un dispositivo USB dotato di microcamera.

Verificando sul proprio computer il contenuto del suddetto dispositivo, la collega del maresciallo accertava la presenza di sette video. Di questi, i primi quattro riprendevano una donna mentre espletava i propri bisogni fisiologici nel bagno di un locale pubblico, il quinto ritraeva un’altra donna, situata dietro il bancone di un esercizio commerciale del medesimo Comune, con in sottofondo la voce del ricorrente, e gli ultimi due contenevano immagini del bagno della collega del militare, con visuale sulla doccia.

Lo stesso giorno, verso le ore 19.30, nell’ufficio del comandante della Stazione, alla presenza del comandante di Compagnia , che era già stato avvertito dell’episodio, il ricorrente ammetteva di aver materialmente collocato la microcamera nel bagno della collega.

Con nota del 5 settembre 2014 il sostituto del comandante della Compagnia segnalava l’episodio alla Procura , evidenziando il reato di interferenze illecite nella vita privata. La collega del militare presentava denuncia-querela nello stesso mese.

Il responsabile della Direzione Generale per il Personale Militare, con decreto del 7 novembre 2014, dispose la sospensione precauzionale dal servizio del ricorrente. In esito al procedimento disciplinare, nel maggio 2015, venne disposta la perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari, ai sensi degli art. 861 comma 1, lett. d) e 867, comma 5, del d.lgs. 15 marzo 2010 n. 66 (codice dell’ordinamento militare).

All’uomo, ormai fuori dall’Arma, rimase la via del Consiglio di Stato, ma i giudici, con la sentenza dello scorso 27 luglio 2020,  hanno confermato la destituzione dal servizio.

Stralcio della sentenza del Consiglio di Stato del 27 luglio 2020

Nel caso di specie -sostengono i giudici –  dagli atti dell’inchiesta disciplinare non si evince alcuna manifesta illogicità o abnormità dell’azione amministrativa;

– il primo giudice si è limitato ad analizzare quanto emerso dagli atti dell’inchiesta disciplinare (in particolare la relazione finale dell’ufficiale inquirente), senza integrare la motivazione della sanzione espulsiva, bensì ponendo in collegamento le conclusioni dell’inchiesta circa la violazione da parte del militare dei “principi più importanti a fondamento dell’Istituzione, tra i quali ci sono sicuramente quello di legalità, di moralità e di rettitudine”, con il giudizio della Commissione di disciplina, espresso all’unanimità, circa la “non meritevolezza di conservare il grado”;

– la valutazione effettuata nel provvedimento espulsivo, secondo cui la condotta accertata è contraria “ai doveri attinenti al giuramento prestato e a quelli di correttezza ed esemplarità propri dello status di militare e di appartenente all’Arma dei Carabinieri nonché lesiva del prestigio dell’Istituzione” appare certamente conforme al canone della proporzionalità;

– a tale riguardo, va peraltro ricordato che “il principio di proporzionalità consiste in un canone legale di raffronto che consente di rilevare macroscopici profili di abnorme distonia fra condotta e sanzione, escluso ogni controllo del merito dell’azione amministrativa: il principio, in sostanza, veicola un mero riscontro ab externo della scelta amministrativa, strutturalmente incapace di penetrarne il nucleo vivo, afferente alla sfera discrezionale riservata” (sentenza n. 381 del 2020, cit.);

Va ricordato, infine, che il giudizio disciplinare non è vincolato alle valutazioni effettuate in sede penale, ferma restando l’immutabilità dell’accertamento dei fatti, nella loro materialità, operato dal giudice penale (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, 1° agosto 2016, n. 3459).

In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere respinto.


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