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Pensioni – Funzionari della Polizia di Stato – Riscatto del periodo di studi universitari. Sentenza della Corte Costituzionale

Impiego pubblico – Pensioni – Funzionari della Polizia di Stato – Riscatto del periodo di studi universitari – Previsione che non contempla il computo gratuito degli anni di durata legale del corso di laurea magistrale o specialistica richiesto ai fini dell’accesso alle rispettive carriere, previsto per gli ufficiali degli altri corpi militari.

Con la sentenza del 30 dicembre 2022, la Corte Costituzionale si è espressa circa il Computo gratuito degli anni di laurea. Di seguito  la sentenza integrale.

1.- Con ordinanza del 14 dicembre 2021, depositata in cancelleria il 15 dicembre 2021 (reg. ord. n. 224 del 2021), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, 38 e 97, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 32 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui non prevedono anche per i funzionari della Polizia di Stato il computo gratuito degli anni di durata legale del corso di laurea magistrale o specialistica richiesto ai fini dell’accesso alle rispettive carriere, previsto per gli ufficiali dei corpi militari dello Stato.

1.1.- Il giudice rimettente rappresenta che, con ricorso depositato in data 27 gennaio 2021, A. D. e altri – funzionari della Polizia di Stato in servizio, appartenenti alla carriera dei funzionari che svolgono attività di polizia, dei funzionari tecnici, e dei funzionari medici in possesso del titolo di laurea magistrale o specialistica richiesto dal rispettivo bando di concorso – hanno chiesto, previa rimessione degli atti a questa Corte, e previo annullamento degli atti di diniego opposti dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), la declaratoria del diritto al computo gratuito ai fini pensionistici degli anni di durata legale del corso di laurea magistrale o specialistica, richiesto ai fini dell’accesso alle rispettive carriere dei funzionari della Polizia di Stato.

Nell’atto introduttivo del giudizio i ricorrenti avevano esposto: a) di aver presentato istanza collettiva all’INPS, per il computo gratuito ai fini pensionistici degli anni di durata legale del corso di laurea richiesto per l’accesso alla rispettiva carriera, conformemente al regime di gratuità previsto dall’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per gli ufficiali dell’Arma dei carabinieri, ai quali è richiesto il titolo di studio della laurea magistrale o specialistica per l’accesso al proprio ruolo; b) che la richiesta era stata rigettata dall’ente previdenziale sul presupposto della impossibilità di estendere alla Polizia di Stato una norma espressamente riservata al personale militare; c) di aver presentato ricorso amministrativo dichiarato improcedibile a causa del suo mancato inoltro attraverso i servizi telematici offerti sul portale dell’INPS stesso.

I ricorrenti avevano quindi adito l’autorità giudiziaria competente contestando quanto asserito dall’ente previdenziale in ordine alla improcedibilità del ricorso amministrativo e, nel merito, chiedendo al giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale per contrasto della disposizione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 con gli artt. 3, 36, 38 e 97 Cost.

Il rimettente riferisce, altresì, che l’INPS, nel costituirsi in giudizio, aveva confutato la fondatezza della pretesa, assumendo che, a seguito della legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), al personale della Polizia di Stato è applicabile il regime previsto per il personale civile, ivi compresa la disciplina in tema di riscatto degli anni di durata legale del corso di laurea, poiché l’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 costituiva norma eccezionale e derogatoria riferita espressamente al solo personale militare e dunque non estensibile analogicamente. L’Istituto aveva inoltre rappresentato che la questione era già stata esaminata da questa Corte (ordinanze n. 847 del 1988 e n. 168 del 1995), che aveva escluso la irrazionalità della scelta del legislatore in considerazione delle peculiarità delle due categorie – impiegati civili dello Stato e militari – e che la stessa magistratura contabile in numerose decisioni aveva ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale prospettata in riferimento agli identici parametri evocati nella fattispecie dai ricorrenti.

1.2.- Rimessa in decisione la causa, il giudice a quo, accogliendo la richiesta dei ricorrenti, definiva la questione pregiudiziale sulla ammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 102, comma 6, lettera d), dell’Allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (Codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124), e, nel merito, sollevava la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 36, 38 e 97, secondo comma, Cost., degli artt. 13 e 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973, nella parte in cui non prevedono il computo gratuito anche ai funzionari della Polizia di Stato degli anni di durata legale del corso di laurea magistrale o specialistica richiesto ai fini dell’accesso alle rispettive carriere, previsto per gli ufficiali dei corpi militari dello Stato.

1.2.1.- In punto di rilevanza, il rimettente afferma che il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione, poiché il dettato normativo esclude la possibilità di estendere l’applicazione della disposizione censurata ai ricorrenti, in quanto riservata espressamente al personale militare dall’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973, richiamato dall’art. 1860 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare).

Difatti, la legge n. 121 del 1981, nel disporre la soppressione del Corpo degli agenti di pubblica sicurezza con contestuale creazione della «Polizia di Stato» ad ordinamento civile, realizzando la cosiddetta “smilitarizzazione” del personale di pubblica sicurezza, dispone espressamente (art. 23, quinto comma) che «[a]l personale appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, per quanto non previsto dalla presente legge, si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato».

Conseguentemente, la sezione giurisdizionale rimettente rileva che, a decorrere dall’entrata in vigore della legge in questione, non è più applicabile al personale della Polizia di Stato la disposizione relativa alla computabilità gratuita ai fini pensionistici degli anni corrispondenti alla durata legale del corso di laurea prevista dal citato art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973, in quanto riservata al personale militare, bensì la disposizione di cui all’art. 13 del medesimo decreto, applicabile al personale pubblico del comparto civile, che prevede il riscatto a domanda e previo contributo.

Secondo il giudice a quo il dubbio di legittimità costituzionale non può quindi essere superato mediante interpretazione adeguatrice, sicché allo stato degli atti l’orientamento espresso dall’INPS appare coerente con il dettato normativo.

1.2.2.- Il rimettente ritiene che la riproposizione della questione non possa essere preclusa dalle ordinanze di questa Corte n. 847 del 1988 e n. 168 del 1995 che ne hanno dichiarato la manifesta infondatezza. Nel richiamare sul punto l’insegnamento di questa Corte (ex plurimis, sentenza n. 257 del 1991), il giudice a quo afferma, pertanto, che «è ben possibile riproporre la questione, laddove siano prospettati profili di costituzionalità diversi, anche alla luce del mutamento del quadro legislativo di riferimento, circostanza riscontrabile nel caso di specie […]».

In proposito, il rimettente rileva che nelle predette ordinanze questa Corte avrebbe «ritenuto prevalente la discrezionalità del legislatore in tema di riscatto, a fronte della diversità e peculiarità del regime ordinamentale dei militari rispetto a quello del personale ad ordinamento civile “… con particolare riguardo ai più bassi limiti di età per la cessazione del servizio stabiliti per i militari (con conseguente maggior difficoltà, rispetto ai civili, di raggiungere il massimo dell’anzianità per il trattamento di quiescenza)”».

Tuttavia, ad avviso della Sezione rimettente, tali motivazioni non sarebbero più attuali «alla luce delle profonde modifiche legislative che hanno portato ad una progressiva omogeneizzazione della disciplina del rapporto di lavoro e del trattamento previdenziale tra le due categorie, tale da rendere irrazionale la disparità di trattamento in parte qua».

In primo luogo, non risulterebbe «più valido l’assunto della Consulta, secondo cui il diverso regime sarebbe giustificato dalla previsione di limiti di età inferiori previsti per i militari rispetto al personale della Polizia di Stato». Ciò perché con il d.lgs. n. 66 del 2010 i limiti anagrafici degli ufficiali sono stati elevati a sessantacinque anni per il generale di corpo d’armata e il generale di divisione; sessantatré anni per il generale di brigata; sessant’anni per il colonnello, il tenente colonnello e gli ufficiali subalterni (art. 928 cod. dell’ordinamento militare) e pertanto risultano parificati a quelli dei funzionari della Polizia di Stato, previsti dall’art. 13 del decreto legislativo 5 ottobre 2000, n. 334 (Riordino dei ruoli del personale direttivo e dirigente della Polizia di Stato, a norma dell’articolo 5, comma 1, della legge 31 marzo 2000, n. 78) ovvero: sessantacinque anni per il dirigente generale di pubblica sicurezza; sessantatré anni per il dirigente superiore; sessant’anni per le qualifiche inferiori (commissario, vice-questore aggiunto, primo dirigente).

Quanto all’evoluzione della normativa nel senso di un «sostanziale avvicinamento del regime ordinamentale del personale appartenente al comparto Sicurezza a prescindere dal relativo status civile/militare», il rimettente evidenzia innanzitutto le forti analogie tra le funzioni svolte, ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, dalle varie Forze di polizia – costituite oltre alla Polizia di Stato, dall’Arma dei carabinieri, dal Corpo della Guardia di finanza, nonché dal Corpo degli agenti di custodia – fermi restando i rispettivi ordinamenti.

Tale analogia troverebbe conferma nella regolazione e nell’assetto ordinamentale degli agenti di polizia, «che pur a fronte dell’abbandono del paradigma militare, non prevede il ricorso all’istituto dei livelli funzionali, ma mantiene la categoria dei ruoli distinti, all’interno dei quali si individuano le singole qualifiche in ragione della professionalità richiesta (art. 23, legge n. 121/1981), così favorendo una struttura più rigida, di tipo gerarchico, sostanzialmente analoga a quella propria di un ordinamento militare, più confacente alle funzioni ed ai compiti da svolgere, in tempo di pace, da parte di un corpo armato».

Il giudice a quo richiama, quindi, gli interventi normativi più significativi che attesterebbero la rilevata tendenza legislativa degli ultimi anni volta alla sostanziale omogeneizzazione del regime ordinamentale del personale del comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico: a) l’art. 6-bis del decreto-legge 21 settembre 1987, n. 387 (Copertura finanziaria del decreto del Presidente della Repubblica 10 aprile 1987, n. 150, di attuazione dell’accordo contrattuale triennale relativo al personale della Polizia di Stato ed estensione agli altri Corpi di polizia), convertito, con modificazioni, nella legge 20 novembre 1987, n. 472, il cui comma 5 prevede che al personale della Polizia di Stato, ai soli fini dell’acquisizione del diritto al trattamento di pensione ordinario, si applichi l’art. 52 del d.P.R. n. 1092 del 1973, riservato al personale militare; b) l’estensione ad opera dello stesso d.lgs. n. 66 del 2010 al personale delle Forze di polizia ad ordinamento civile e al Corpo nazionale dei vigili del fuoco di alcune disposizioni in tema di trattamento previdenziale (artt. 2177 e successivi cod. ordinamento militare); c) l’art. 6 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, che ha escluso il personale appartenente al comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico dall’abrogazione degli istituti dell’accertamento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata; d) l’art. 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), i cui primi due commi prevedono che: «1. Ai fini della definizione degli ordinamenti, delle carriere e dei contenuti del rapporto di impiego e della tutela economica, pensionistica e previdenziale, è riconosciuta la specificità del ruolo delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché dello stato giuridico del personale ad essi appartenente, in dipendenza della peculiarità dei compiti, degli obblighi e delle limitazioni personali, previsti da leggi e regolamenti, per le funzioni di tutela delle istituzioni democratiche e di difesa dell’ordine e della sicurezza interna ed esterna, nonché per i peculiari requisiti di efficienza operativa richiesti e i correlati impieghi in attività usuranti. 2. La disciplina attuativa dei princìpi e degli indirizzi di cui al comma 1 è definita con successivi provvedimenti legislativi, con i quali si provvede altresì a stanziare le occorrenti risorse finanziarie»; e) l’art. 46 del decreto legislativo 29 maggio 2017, n. 95, recante «Disposizioni in materia di revisione dei ruoli delle Forze di polizia, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», che ha istituito l’area negoziale dei dirigenti delle Forze di polizia a status civile, riguardante la parte normativa del loro rapporto di impiego e il trattamento accessorio della parte economica, prevedendo procedure e risorse per l’estensione delle misure definite al tavolo negoziale, anche agli ufficiali superiori delle Forze di polizia a status militare e alle Forze armate.

Il rimettente prosegue rilevando che a livello legislativo vi è una netta separazione tra i due comparti “sicurezza” (Arma dei carabinieri, Guardia di finanza e Polizia di Stato) da una parte e “Forze armate” (Esercito, Marina militare ed Aeronautica militare) dall’altra. Richiama in proposito l’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 12 maggio 1995, n. 195 (Attuazione dell’art. 2 della legge 6 marzo 1992, n. 216, in materia di procedure per disciplinare i contenuti del rapporto di impiego del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate), secondo cui «[l]e procedure di cui al comma 1, da attuarsi secondo le modalità e per le materie indicate negli articoli seguenti, si concludono con l’emanazione di separati decreti del Presidente della Repubblica concernenti rispettivamente il personale delle Forze di polizia anche ad ordinamento militare e quello delle Forze armate».

In questa ottica il rimettente richiama, altresì, la sentenza di questa Corte n. 120 del 2018 poiché, nell’attenuare «le limitazioni ad alcune libertà fondamentali del personale militare in ambito politico e sindacale», costituirebbe «un’ulteriore conferma dell’ormai pacifica omogeneizzazione degli ordinamenti delle Forze di Polizia, a prescindere dal relativo status, di fatto eliminando una delle caratteristiche che avevano giustificato la smilitarizzazione dell’allora Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, ovvero la possibilità di godere della rappresentanza sindacale».

Inoltre, il giudice a quo rappresenta che permane per tutte le amministrazioni della pubblica sicurezza, sia ad ordinamento civile che militare, il divieto di sciopero e di iscriversi ad associazioni sindacali non di categoria ed afferma che, alla luce di quanto così dedotto, l’unica differenza è costituita dall’assoggettamento del personale dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della Guardia di finanza al codice penale militare.

In ordine alla specifica problematica oggetto di giudizio, la Sezione giurisdizionale rimettente, a sostegno della rilevata tendenza legislativa alla omogeneizzazione della posizione del personale del comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico, menziona la nota INPS 10 dicembre 2020, protocollo n. 0013.10/12/2020.0388573, secondo cui «al personale direttivo e dirigente del ruolo professionale dei sanitari della Polizia di Stato, immessi in servizio come Ufficiali Medici del disciolto Corpo delle Guardie di P.S., si applica, per la valutazione del corso legale di laurea, l’art. 32 del DPR n. 1092/1973, riprodotto dall’art. 1860 del D.Lgs. n. 66/2010, come da Circolare Inpdap n. 6 del 23 marzo 2005, paragrafo 3.4».

Da ultimo, il rimettente evidenzia che l’art. 28 del disegno di legge di bilancio 2022 – in corso di approvazione parlamentare al momento dell’emanazione dell’ordinanza di rimessione – al fine di allineare il trattamento pensionistico a tutto il personale delle Forze di polizia e delle Forze armate, la cui pensione sia calcolata con il sistema “misto”, prevede l’estensione, al personale delle Forze di polizia ad ordinamento civile (Polizia di Stato e Polizia penitenziaria), della disciplina di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 1092 del 1973, prevista per il personale militare, concernente la determinazione dell’aliquota annua di rendimento sulla parte della pensione calcolata con il sistema retributivo. Sul punto il giudice a quo rappresenta, peraltro, di aver sollevato, con ordinanza n. 85 del 2021, questione di legittimità costituzionale dell’assetto normativo previsto dal d.P.R. n. 1092 del 1973, in riferimento alla mancata estensione al personale della Polizia di Stato della citata disposizione di cui all’art. 54 del medesimo d.P.R.

1.2.3.- Per quanto così illustrato, il rimettente asserisce che l’assetto normativo delineato dagli artt. 13 e 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 lede innanzitutto l’art. 3 Cost., determinando una disparità di trattamento, fondata sul mero status civile/militare, con riferimento al personale appartenente al medesimo comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico, svolgente le medesime funzioni e disciplinato da ordinamenti ormai sostanzialmente omogenei.

Infatti, nonostante l’analogia delle attività, l’Arma dei carabinieri ed il Corpo della Guardia di finanza possono godere di una maggiore base di anzianità contributiva, che viene garantita gratuitamente agli ufficiali, per i quali è richiesto il titolo di studio della laurea magistrale o specialistica, rispetto ai funzionari della Polizia di Stato.

Quanto alla lesione degli artt. 36 e 38 Cost., il rimettente ritiene che tali parametri siano violati «nella misura in cui, essendo previsto un contributo per il riscatto degli anni di studi, i funzionari della Polizia di Stato, che non possono affrontare tale onere economico, subirebbero il sacrificio dell’interesse al perseguimento di un trattamento pensionistico proporzionato al servizio prestato ed adeguato a mantenere lo stesso tenore di vita».

Viene richiamata la giurisprudenza costituzionale sulla natura del trattamento di quiescenza e sulla proporzionalità e adeguatezza dello stesso alle esigenze di vita che «non sono solo quelli che soddisfano i bisogni elementari e vitali ma anche quelli che siano idonei a realizzare le esigenze relative al tenore di vita conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta» (sono richiamate le sentenze n. 349 del 1985 e n. 26 del 1980).

Secondo il rimettente, il sacrificio determinato dall’onerosità del riscatto del periodo di studi universitari del diritto di conseguire un trattamento pensionistico adeguato e proporzionato da parte dei funzionari della Polizia di Stato è accentuato da un limite ordinamentale di accesso alla pensione di vecchiaia (da sessanta a sessantacinque anni in relazione alla qualifica) più basso del restante impiego pubblico, «per il quale, per effetto della riforma di cui al decreto-legge 201/2011, convertito con legge 214/2011 (Legge Fornero), il limite anagrafico per la pensione di vecchiaia è stato innalzato a 66 anni per gli uomini e 64 per le donne».

Infine, in riferimento alla lesione dell’art. 97, secondo comma, Cost., il giudice a quo ribadisce che il contestato assetto normativo della materia comporterebbe il rischio di creare un vulnus al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, nella misura in cui costituisce un disincentivo all’ingresso nei ruoli della Polizia di personale idoneo per preparazione e cultura.

Pur richiamando la giurisprudenza costituzionale in tema di discrezionalità di cui gode il legislatore nella disciplina del riscatto, il rimettente afferma che l’interesse della pubblica amministrazione ad acquisire personale qualificato si traduce, secondo la stessa giurisprudenza, nel riconoscere «alla preparazione, acquisita anteriormente all’ammissione in servizio e richiesta per quest’ultimo, ogni migliore considerazione ai fini di quiescenza» (sono richiamate le sentenze n. 52 del 2000 e n. 112 del 1996).

Ad avviso della Sezione giurisdizionale pugliese, la previsione di un contributo per il riscatto degli anni di studio, unitamente ai più bassi limiti di anzianità per la cessazione dal servizio per i funzionari della Polizia di Stato, determinerebbe una penalizzazione economica in termini di capitalizzazione dei contributi pensionistici, che costituisce «un deterrente per l’ingresso in Polizia di personale qualificato, a tutto discapito del principio di buon andamento».

2.- Con atto depositato in data 9 febbraio 2022 i ricorrenti nel giudizio principale si sono costituiti nel giudizio incidentale aderendo alle argomentazioni e alla richiesta del giudice rimettente.

Le parti private ripercorrono le argomentazioni addotte dal rimettente, segnatamente, in ordine al percorso di omogeneizzazione che negli ultimi anni si sarebbe configurato nei confronti del personale del comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico, a prescindere dallo status civile e militare dei suoi appartenenti. Tale percorso risulterebbe confermato, in materia previdenziale, dall’intervenuta approvazione, con l’art. 1, comma 101, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2022 e bilancio pluriennale per il triennio 2022-2024), della disposizione presente nel disegno di legge di bilancio per l’anno 2022 menzionata dal giudice rimettente, concernente l’estensione al personale delle Forze di polizia delle disposizioni recate dall’art. 54, comma 1, del d.P.R. n. 1092 del 1973, già riservate al personale militare e a quello del corpo nazionale dei Vigili del fuoco.

In proposito le parti private evidenziano che nella relazione illustrativa alla citata proposta normativa viene esplicitato l’obiettivo generale del legislatore, costituito dall’affermazione di un principio perequativo in materia pensionistica per tutto il personale del comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico. Ciò in quanto vi si afferma che «[l]a disposizione è volta ad assicurare il mantenimento della sostanziale equiordinazione all’interno del comparto sicurezza e difesa, in relazione alla “specificità” prevista dall’articolo 19 della legge 4 novembre 2010, n. 183, anche con riferimento alle modalità di determinazione del trattamento pensionistico del personale in regime di sistema misto, che al 31 dicembre 1995 aveva maturato una anzianità contributiva inferiore a 18 anni».

Secondo le parti private, l’intervento legislativo di cui all’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021 ha anche le «caratteristiche di intervento di sistema, perché, con il richiamo esplicito al principio di specificità, riconosce un contenuto peculiare a quel principio, cioè la perequazione dei trattamenti, in questo caso pensionistici, del personale civile e militare del comparto sicurezza».

Tale principio, introdotto nel 2010, costituirebbe «l’architrave di un assetto ordinamentale del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate, fondato sulla omogeneizzazione dei trattamenti, giuridici, economici e pensionistici riguardanti il citato personale, e sulla netta distinzione e non estensibilità degli stessi verso il pubblico impiego generale».

3.- L’INPS si è costituito in giudizio con atto depositato il 15 febbraio 2022 nel quale, confutate le argomentazioni addotte dal giudice rimettente a sostegno della questione di legittimità, chiede di dichiararne la non fondatezza.

Richiamate le ordinanze di questa Corte n. 847 del 1988 e n. 168 del 1995 in argomento, l’Istituto previdenziale ha rappresentato che altre sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti si sono espresse per la non fondatezza della medesima questione, non ravvisando la violazione prospettata dai ricorrenti dei medesimi parametri costituzionali evocati nella fattispecie dalla sezione giurisdizionale per la Regione Puglia (ex plurimis, Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, sentenza 26 gennaio 2021, n. 6).

In particolare, relativamente alla prospettata lesione dell’art. 3 Cost., le richiamate decisioni della magistratura contabile hanno affermato che le modifiche del quadro ordinamentale menzionate dai ricorrenti non possono ritenersi idonee a far venir meno le peculiarità proprie dello status di militare e la ontologica differenza di regime giuridico tra il personale militare (nel cui ambito è collocata l’Arma dei carabinieri) ed il personale civile (nel cui ambito è inserita la Polizia di Stato), essendo indubbio che lo status giuridico di militare comporta l’adempimento di doveri ed obblighi e limita alcune prerogative che la Costituzione garantisce ai cittadini.

4.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 14 febbraio 2022.

4.1.- Preliminarmente, l’Avvocatura generale dello Stato evidenzia due profili di inammissibilità della questione relativamente al petitum.

Un primo profilo di inammissibilità è ravvisato nell’ambiguità del petitum: il giudice a quo non avrebbe chiarito quale delle due disposizioni impugnate, l’art. 32 o l’art. 13 del d.P.R. n. 1092 del 1973, dovrebbe essere oggetto della pronuncia richiesta a questa Corte.

Un secondo profilo di inammissibilità deriverebbe dall’inesatta individuazione delle norme oggetto di censura, poiché, secondo la difesa statale, non sarebbe l’art. 13 del d.P.R. n. 1092 del 1973 ad impedire un’interpretazione estensiva della disciplina dettata dall’art. 32 dello stesso d.P.R. Tale preclusione deriverebbe dalla previsione del quinto comma dell’art. 23 della legge n. 121 del 1981, previsione che avrebbe, pertanto, dovuto essere oggetto del dubbio di legittimità costituzionale nella parte in cui non esclude la disciplina in tema di riscatto pensionistico dall’applicabilità generalizzata al personale della Polizia di Stato delle norme degli impiegati civili dello Stato.

4.2.- Nel merito la difesa statale afferma la non fondatezza della questione.

Circa il contrasto con l’art. 3 Cost., ricorda che nelle richiamate ordinanze n. 847 del 1988 e n. 168 del 1995 questa Corte ha evidenziato la riconduzione della materia alla discrezionalità del legislatore e che la differenza di regime in tema di riscatto tra impiego civile e impiego militare non è frutto di una scelta irrazionale, a fronte della peculiarità delle due categorie di impiego.

Inoltre, la difesa dello Stato evidenzia che questa Corte ha escluso la rilevanza delle argomentazioni volte a rimarcare affinità o analogia di funzione del personale in questione, attesa l’intervenuta modifica dello stato giuridico del personale dell’amministrazione della pubblica sicurezza. Tale valutazione non è modificata dall’intervenuta parificazione dei limiti massimi di età pensionabile tra gli ufficiali dell’Arma dei carabinieri e i funzionari della Polizia di Stato operata con il d.lgs. n. 66 del 2010, che ha fatto venir meno gli elementi differenziali, poiché «di contro, lo scostamento tra retribuzione e pensione, determinato dalla minore massa contributiva a disposizione del funzionario di Polizia che non ha potuto riscattare gli anni di studi universitari rispetto a quanto previsto per l’ufficiale dei carabinieri, non è significativamente diverso da quello che attualmente si registra per tutto il personale civile dello Stato».

A sostegno della non fondatezza della questione anche la difesa statale richiama le decisioni delle sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti che hanno rigettato analoghe richieste volte a sollevare questioni di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per motivi coincidenti con quelli prospettati dalla sezione giurisdizionale rimettente (ex plurimis, Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Sardegna, sentenza 15 novembre 2021n. 356).

La difesa statale afferma che, peraltro, eventuali equiparazioni operate fra gli appartenenti alla Polizia di Stato e appartenenti alle Forze armate vanno rimesse «alla discrezionalità legislativa che deve anche tener conto delle varie esigenze nel quadro della politica economica, perché “la scelta in concreto del meccanismo di perequazione è riservata al legislatore chiamato ad operare il bilanciamento tra le varie esigenze nel quadro della politica economica generale e delle concrete disponibilità finanziarie” (cfr. le sentenze n. 226 del 1993 e n. 241 del 1996)»; ciò tanto più a seguito dell’introduzione del principio costituzionale dell’equilibrio di bilancio, sancito dall’art. 81 Cost.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato tali considerazioni «tolgono rilievo anche alle argomentazioni del rimettente in merito all’individuazione di una progressiva equi-ordinazione della disciplina del rapporto di impiego delle Forze di Polizia dello Stato, da cui conseguirebbe l’esistenza di un principio perequativo di tutti i trattamenti dall’istituzione del Comparto difesa, sicurezza, soccorso pubblico».

In ordine alla prospettata violazione degli artt. 36 e 38 Cost., la difesa statale deduce che le argomentazioni del rimettente condurrebbero allora a ritenere, diversamente opinando, che «il trattamento pensionistico dovrebbe considerarsi inidoneo anche per tutti i dipendenti civili, ai quali, esattamente come ai funzionari della Polizia di Stato, il beneficio in questione non è riconosciuto».

Inoltre, l’Avvocatura generale dello Stato rileva che l’affermazione del giudice rimettente «secondo cui il mancato riscatto degli anni di laurea (si badi bene liberamente scelto dal soggetto), incida di per sé sull’idoneità della retribuzione (pensione) ad assicurare “un’esistenza libera e dignitosa” è del tutto apodittica e priva di qualsivoglia sostegno argomentativo di tipo fattuale e/o economico».

Per analoghe ragioni la difesa statale esclude la lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all’art. 97, secondo comma, Cost., poiché qualora si accedesse alla considerazione che l’onerosità del riscatto contrasta con l’incentivazione della maggiore cultura e formazione professionale dei funzionari dello Stato, allora dovrebbe ipotizzarsi un diritto alla gratuità del riscatto per tutti i dipendenti dello Stato, a prescindere dalla natura militare o civile del servizio prestato.

5.- L’Associazione nazionale funzionari di polizia (ANFP) in data 14 febbraio 2022 ha depositato un’opinione, ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, ammessa con decreto della Presidente della Corte in data 22 settembre 2022.

L’ANFP fa proprie le argomentazioni addotte dal giudice rimettente e dalle parti private, secondo cui gli interventi normativi sull’assetto pensionistico delle Forze di polizia pervenuti negli ultimi anni attesterebbero un’evidente tendenza alla omogeneizzazione dei contenuti degli specifici istituti previdenziali, a prescindere dallo status civile o militare, in considerazione della coincidente attività riguardante l’ordine pubblico e la sicurezza; tendenza che troverebbe conferma da ultimo nell’art. 1, comma 101, della legge n. 234 del 2021, inteso ad applicare l’art. 54, comma 1, del d.P.R. n. 1092 del 1973, quale «misura del trattamento normale», anche alle Forze di polizia ad ordinamento civile.

Pertanto, l’ANFP conclude ravvisando nell’accoglimento della questione avanzata dal giudice rimettente lo strumento per rimuovere la eccepita irragionevole sperequazione tra personale militare e personale civile della Polizia di Stato.

6.- In prossimità dell’udienza le parti private hanno depositato una memoria illustrativa in cui hanno innanzitutto replicato ai profili di inammissibilità, rispetto al petitum, dedotti nell’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e, nel confutare le argomentazioni dell’INPS e della difesa statale, hanno ribadito e integrato quanto già sostenuto nell’atto di costituzione.

In particolare, le parti private insistono nell’affermare che l’applicazione al personale della Polizia di Stato della disposizione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 «non costituirebbe più estensione di una norma eccezionale e derogatoria, ma estensione di una norma rientrante nell’ambito della comune specificità (articolo 19, legge 183 del 2010) dei trattamenti pensionistici del personale delle forze di polizia, in quanto tale, estranea al regime generale del restante pubblico impiego».

Ancora, le parti private confutano quanto affermato dall’Istituto previdenziale e dall’Avvocatura generale dello Stato circa la non configurabilità nell’ordinamento di un principio normativo di perequazione dei trattamenti pensionistici del personale delle Forze di polizia, a prescindere dallo status civile o militare, perché ciò condurrebbe a ritenere che solo il legislatore possa eliminare le sperequazioni giacché «un’estensione generalizzata della qualifica di norma eccezionale fondata sullo status, rispetto a qualsiasi norma pensionistica che riguardi il personale militare, farebbe prevalere sempre la discrezionalità del legislatore, e non vi sarebbe alcuno spazio per una valutazione della Corte costituzionale sulla ragionevolezza nell’utilizzo della stessa».

7.- Anche l’Avvocatura generale dello Stato, in prossimità dell’udienza, ha depositato una memoria nella quale, ribadita la non estensibilità alla Polizia di Stato della disposizione di cui all’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 in quanto norma eccezionale avente carattere derogatorio al generale principio di onerosità del riscatto del periodo di studi universitari, ha insistito per la declaratoria di non fondatezza della questione.

8.- All’udienza le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nei rispettivi atti.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 224 del 2021), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, dubita, in riferimento agli artt. 3, 36, 38 e 97, secondo comma, Cost., della legittimità costituzionale degli artt. 13 e 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973, nella parte in cui non prevedono, per i funzionari della Polizia di Stato, il computo gratuito degli anni di durata legale del corso di laurea magistrale o specialistica richiesto ai fini dell’accesso alle rispettive carriere, previsto per gli ufficiali degli «altri corpi militari».

1.1.- Il presente giudizio è originato da una controversia promossa nei confronti dell’INPS da funzionari della Polizia di Stato in possesso del titolo di laurea magistrale o specialistica richiesto dal rispettivo bando di concorso, che hanno agito in giudizio per vedersi riconosciuto il diritto al computo gratuito ai fini pensionistici, previsto dall’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per gli ufficiali dei corpi militari dello Stato, degli anni di durata legale del corso di laurea magistrale o specialistica, previa rimessione degli atti a questa Corte per veder dichiarare la illegittimità costituzionale della predetta disposizione per violazione degli artt. 3, 36, 38, e 97, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevede l’applicazione anche ai funzionari della Polizia di Stato di un tale beneficio.

In accoglimento della prospettata eccezione di illegittimità costituzionale, il giudice a quo ha quindi sollevato la questione in oggetto nei termini innanzi indicati.

In punto di rilevanza il rimettente afferma che il giudizio non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione, poiché il combinato disposto degli artt. 13 e 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 esclude la possibilità di estendere l’applicazione della disposizione censurata ai ricorrenti, in quanto riservata espressamente agli ufficiali, e dunque al personale militare, dal citato art. 32, richiamato dall’art. 1860 del d.lgs. n. 66 del 2010, laddove l’art. 23, quinto comma, della legge n. 121 del 1981 – che ha disposto la soppressione del Corpo degli agenti di pubblica sicurezza con contestuale creazione della «Polizia di Stato» ad ordinamento civile, realizzando la cosiddetta “smilitarizzazione” del personale di pubblica sicurezza – stabilisce espressamente che «[a]l personale appartenente ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, per quanto non previsto dalla presente legge, si applicano, in quanto compatibili, le norme relative agli impiegati civili dello Stato».

In considerazione di tali inequivoci enunciati normativi, il giudice a quo afferma che il dubbio di legittimità costituzionale non può quindi essere superato mediante interpretazione adeguatrice, sicché allo stato degli atti il diniego opposto dall’INPS alla richiesta dei ricorrenti appare coerente con l’ordinamento.

1.2.- Riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo afferma che la sua riproposizione non può essere preclusa dall’esito delle ordinanze n. 847 del 1988 e n. 168 del 1995, che ne hanno dichiarato la manifesta infondatezza a motivo della discrezionalità del legislatore nel disciplinare le modalità di riscatto a fini pensionistici del periodo di studi universitari, giacché tali motivazioni non sarebbero più attuali: da un lato, per effetto della intervenuta equiparazione, ad opera del d.lgs. n. 66 del 2010, dei limiti di età per la cessazione dal servizio dei militari (all’epoca delle ordinanze, inferiori a quelli previsti per la Polizia di Stato), rispetto a quelli stabiliti dal d.lgs. n. 334 del 2000 per le corrispondenti qualifiche del personale della Polizia di Stato; dall’altro, a motivo del processo di sostanziale omogeneizzazione del regime ordinamentale del personale del comparto di sicurezza a prescindere dallo status militare (in particolare l’Arma dei carabinieri) o civile quale la Polizia di Stato, stante le forti analogie tra le funzioni svolte, ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

In proposito, il rimettente menziona i più significativi interventi che attesterebbero la dedotta tendenza legislativa.

1.3.- Ciò premesso, il giudice a quo afferma che l’assetto normativo in tema di riscatto del corso di studi applicabile al personale della Polizia di Stato determinerebbe una lesione dei parametri costituzionali evocati.

Innanzitutto, la diversità della normativa in tema di riscatto del corso di studi di laurea applicabile al personale della Polizia di Stato rispetto alle Forze di polizia ad ordinamento militare comporterebbe una discriminazione fra situazioni similari, lesiva del canone di ragionevolezza e del principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 Cost.

Il combinato disposto degli articoli censurati violerebbe, poi, gli artt. 36 e 38 Cost., nella misura in cui, essendo previsto un contributo per il riscatto degli anni di studio, i funzionari della Polizia di Stato, che non possono affrontare tale onere economico, subirebbero il sacrificio dell’interesse al perseguimento di un trattamento pensionistico proporzionato al servizio prestato e adeguato a mantenere lo stesso tenore di vita.

Infine, secondo il rimettente, sarebbe leso il principio di buon andamento della pubblica amministrazione posto dall’art. 97, secondo comma, Cost., poiché la differente disciplina relativa al riscatto degli anni di laurea costituirebbe un disincentivo all’ingresso nei ruoli della Polizia di Stato di personale idoneo per formazione e cultura per le carriere direttive.

2.- Nel giudizio incidentale si sono costituiti i ricorrenti nel giudizio principale aderendo alle argomentazioni e alla richiesta del giudice rimettente.

Nel giudizio si è, altresì, costituito l’INPS ed è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. Sia l’INPS che la difesa statale hanno confutato le argomentazioni addotte dal giudice rimettente a sostegno della questione di legittimità costituzionale.

L’ANFP ha depositato, ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, un’opinione scritta quale amicus curiae, nella quale ha aderito alle argomentazioni addotte dal giudice rimettente e dalle parti private, costituitesi in giudizio.

3.- Il rimettente censura il combinato disposto delle disposizioni dettate dall’art. 13 e dall’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 nella parte in cui non prevede, e dunque non consente, l’applicazione anche ai funzionari della Polizia di Stato del computo gratuito ai fini pensionistici degli anni di durata legale del corso di laurea richiesto per l’accesso alle rispettive carriere previsto invece per gli ufficiali dei Corpi militari dello Stato e, dunque, anche per quelli dell’Arma dei carabinieri.

L’art. 13 del d.P.R. n. 1092 del 1973, recante «Periodi di studi superiori e di esercizio professionale», al primo comma stabilisce: «[i]l dipendente civile al quale sia stato richiesto, come condizione necessaria per l’ammissione in servizio, il diploma di laurea o, in aggiunta, quello di specializzazione rilasciato dopo la frequenza di corsi universitari di perfezionamento può riscattare in tutto o in parte il periodo di tempo corrispondente alla durata legale degli studi universitari e dei corsi speciali di perfezionamento, verso corresponsione di un contributo pari al 6 per cento, commisurato all’80 per cento dello stipendio spettante alla data di presentazione della domanda, in relazione alla durata del periodo riscattato».

Invece l’art. 32, recante «Studi superiori richiesti agli ufficiali», dispone: «[n]ei confronti degli ufficiali per la cui nomina in servizio permanente effettivo sia stato richiesto il possesso del diploma di laurea si computano tanti anni antecedenti alla data di conseguimento di detto titolo di studio quanti sono quelli corrispondenti alla durata legale dei relativi corsi. Si computano altresì gli anni corrispondenti al corso di studi universitari, di durata inferiore al corso di laurea, richiesti come condizione necessaria per la nomina in servizio permanente effettivo o per l’ammissione ai corsi normali delle accademie militari per la nomina a ufficiale in servizio permanente effettivo».

È, dunque, evidente la diversa disciplina della valorizzazione a fini pensionistici del periodo di studi universitari: ai funzionari della Polizia di Stato, in quanto dipendenti civili ai sensi dell’art. 23, quinto comma, della legge n. 121 del 1981, si applica il regime oneroso del riscatto previsto dall’art. 13 e non il beneficio del computo gratuito di tale periodo a fini pensionistici previsto dall’art. 32 per gli ufficiali delle Forze armate e, dunque, anche per quelli dell’Arma dei carabinieri.

4.- La questione, come si è rilevato, è stata già sottoposta al vaglio di questa Corte che, con le ordinanze n. 847 del 1988 e n. 168 del 1995, ne ha dichiarato la manifesta infondatezza in base a due considerazioni principali: in via generale, la discrezionalità di cui gode il legislatore in materia di regolazione del riscatto sia nello scegliere i periodi ammissibili sia nel determinarne le modalità, sia nello stabilire se porre a carico dell’interessato il relativo onere finanziario in tutto o in parte; nello specifico, la diversità dell’impiego militare rispetto a quello civile, con particolare riguardo ai più bassi limiti di età per la cessazione dal servizio (all’epoca) stabiliti per i militari, con conseguente maggiore difficoltà, rispetto ai civili, di raggiungere il massimo dell’anzianità utile per il trattamento di quiescenza.

Pertanto, l’odierno thema decidendum è costituito dal verificare se il quid novi rappresentato dal giudice rimettente sia effettivamente elemento idoneo a incidere sulle predette argomentazioni addotte nelle menzionate ordinanze, così da condurre ad esiti diversi.

5.- In ordine all’ammissibilità, non sussistono dubbi sulla possibilità per il giudice rimettente di riproporre la questione già scrutinata con giudizio di manifesta infondatezza nelle ordinanze n. 847 del 1988 e n. 168 del 1995. Nell’odierno giudizio, alla luce dell’evoluzione del quadro normativo, la questione è prospettata in ordine a profili e sulla scorta di argomenti nuovi, che ne consentono la riproposizione in questa sede.

5.1.- La difesa statale ha ravvisato due profili di inammissibilità, il primo dei quali sarebbe costituito dall’ambiguità della richiesta del giudice a quo, poiché non avrebbe chiarito quale delle due disposizioni censurate, l’art. 32 o l’art. 13 del d.P.R. n. 1092 del 1973, dovrebbe essere oggetto della pronuncia di illegittimità costituzionale. Conseguentemente, secondo la difesa statale, «l’intervento manipolativo invocato presenta connotati incerti, perché l’ordinanza non chiarisce la natura della pronuncia invocata, ovvero se essa debba avere carattere additivo rispetto alla previsione “speciale” dell’art. 32 del T.U., oppure carattere ablativo rispetto alla portata generale di quanto stabilito dall’art. 13 del medesimo testo».

In ordine a tale profilo, le parti private, con la memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza, hanno replicato rilevando come «il carattere della pronuncia della Corte costituzionale, invocata dall’ordinanza di rimessione, sia quello additivo rispetto all’art. 32 del citato testo unico. Questo intervento, infatti, non farebbe incorrere, nel caso di specie, in un’illegittima estensione analogica di norma a carattere eccezionale, perché il citato art. 32 è norma eccezionale solo con riferimento agli impiegati civili dello Stato, e non rispetto al personale della Polizia di Stato».

5.2.- Un secondo profilo di inammissibilità consisterebbe, secondo la difesa statale, nella inesatta individuazione delle norme oggetto di censura: l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 non deriverebbe dall’art. 13 del medesimo d.P.R. n. 1092 del 1973, ma dal ricordato quinto comma dell’art. 23 della legge n. 121 del 1981, nella parte in cui non esclude l’applicazione della predetta disciplina concernente il computo gratuito a fini pensionistici degli anni del corso di laurea dall’applicabilità generalizzata al personale della Polizia di Stato delle norme degli impiegati civili dello Stato.

5.3.- Le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa statale, che possono essere esaminate congiuntamente poiché investono profili tra loro connessi, non sono fondate.

I ricorrenti nel giudizio principale mirano, difatti, specificamente a conseguire l’applicazione della disciplina speciale dettata dall’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per gli ufficiali, cui si frappone la diversa previsione in materia dettata dall’art. 13 applicabile per i dipendenti civili dello Stato, tra i quali rientrano, a seguito della legge n. 121 del 1981, gli appartenenti alla Polizia di Stato, come stabilito dall’art. 23, quinto comma. Pertanto, tale ultima disposizione ha una portata e funzione più ampia e generale rispetto allo specifico istituto di cui i ricorrenti hanno chiesto l’applicazione con l’atto introduttivo del giudizio principale, sebbene sia indubbio che è tale normativa a costituire il fattore che ha comportato la differenziazione della disciplina applicabile alla Polizia di Stato rispetto a quella che opera per i militari, in relazione – anche – alla fattispecie in esame.

Il rimettente ha dunque individuato in maniera pertinente le disposizioni che sono all’origine del vulnus denunciato e ha delineato in termini univoci l’intervento correttivo richiesto a questa Corte.

6.- Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. non è fondata.

Il giudizio in esame si inserisce nella complessa vicenda, oramai ultraquarantennale, originata dalla “smilitarizzazione” del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza ad opera della legge n. 121 del 1981 e dalla conseguente estromissione dall’ambito applicativo delle peculiari e più favorevoli disposizioni dettate per i militari, in particolare dal d.P.R. n. 1092 del 1973, recante la disciplina del trattamento di quiescenza dei dipendenti dello Stato.

Per i militari, il predetto d.P.R. detta una disciplina che diverge in modo significativo da quella parallela per gli impiegati civili, contemplando, come nel caso della disposizione dettata dall’art. 32, regole più favorevoli in considerazione della peculiarità dello status militare, del rispettivo ordinamento, delle caratteristiche del rapporto di servizio e delle funzioni espletate.

Si tratta di un corpus normativo che, pur inquadrandosi in un contesto profondamente modificato, conserva tuttavia ragioni di perdurante attualità, attesa la distinzione fra impiego civile e militare, che continua a comportare significative diversità di regolazione, riflesso della differenza strutturale dei rispettivi ordinamenti.

6.1.- Tali considerazioni conducono a confermare le argomentazioni che avevano indotto questa Corte, nelle ordinanze n. 848 del 1988 e n. 168 del 1995, a dichiarare non fondata la stessa questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.

6.2.- Innanzitutto, permane il carattere eccezionale e derogatorio della gratuità del computo degli anni del corso universitario per conseguire la laurea per gli ufficiali prevista dall’art. 32 del d.P.R n. 1092 del 1973 rispetto al riscatto a titolo oneroso degli anni di laurea previsto per i dipendenti civili dall’art. 13 dello stesso d.P.R., che si colloca nel perimetro della disciplina generale dettata dall’art. 2 del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 184 (Attuazione della delega conferita dall’articolo 1, comma 39, della legge 8 agosto 1995, n. 335, in materia di ricongiunzione, di riscatto e di prosecuzione volontaria ai fini pensionistici).

Il carattere spiccatamente derogatorio ed eccezionale della disposizione dettata dall’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 osta, di per sé, secondo la giurisprudenza di questa Corte, alla possibilità di invocarla quale tertium comparationis. Così come, analogamente, non costituisce fonte di discriminazione costituzionalmente rilevante il fatto che il legislatore abbia delimitato l’ambito di applicazione della suddetta norma (ex plurimis, sentenze n. 225 del 2014, n. 273 del 2011 e n. 131 del 2009).

D’altro canto, questa Corte ha affermato che la violazione del principio di uguaglianza sussiste qualora situazioni omogenee siano disciplinate in modo ingiustificatamente diverso e non quando alla diversità di disciplina corrispondano situazioni non assimilabili (ex multis, sentenza n. 165 del 2020), come si verifica nella fattispecie, stante la persistente diversità del complessivo assetto ordinamentale tra le Forze di polizia ad ordinamento civile e quelle a ordinamento militare.

6.3.- In via generale, si deve escludere che la complessiva evoluzione normativa illustrata nell’ordinanza possa condurre a configurare nell’ordinamento il prospettato principio di piena omogeneità di regolazione fra personale militare e personale civile del comparto di pubblica sicurezza.

Si è già rilevato in precedenza come persista la strutturale diversità tra i rispettivi status che determina differenti soluzioni sul piano normativo e che è all’origine della dicotomia nelle discipline previdenziali fra impiego civile e impiego militare presente nel d.P.R. n. 1092 del 1973.

L’impiego militare è caratterizzato da una forte compenetrazione fra i profili ordinamentali e la disciplina del rapporto di servizio, come attesta lo stesso codice dell’ordinamento militare di cui al d.lgs. n. 66 del 2010, che, non a caso, ha normato contestualmente i diversi profili. Nella fattispecie è, difatti, l’art. 1860 del codice dell’ordinamento militare a richiamare l’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 in tema di valutazione a fini pensionistici del periodo di studi universitari per gli ufficiali.

Ben diversa è la disciplina del personale della Polizia di Stato, riconducibile, pur nelle sue accentuate specificità, a quella degli impiegati civili dello Stato.

In definitiva, il giudice rimettente, nell’accentuare la comune appartenenza al comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico dei dipendenti della Polizia di Stato e dei militari dell’Arma dei carabinieri, tralascia di considerare che gli ufficiali dell’Arma dei carabinieri, avente rango di Forza armata ai sensi dell’art. 155 cod. ordinamento militare, sono beneficiari della disposizione censurata proprio in quanto militari, così come, in tale veste, ne fruivano gli appartenenti alla Polizia di Stato prima della “smilitarizzazione”.

Il rimettente adombra, dunque, una sorta di sostanziale ultrattività del pregresso status militare, condiviso dagli appartenenti alla Polizia di Stato fino alla riforma del 1981 con altre forze del comparto Difesa, sicurezza e soccorso pubblico, che condurrebbe a ritenere ancora dovuta l’applicabilità nei loro confronti, a distanza di oltre quarant’anni dalla riforma stessa, del sistema normativo specificamente previsto per i dipendenti militari in materia previdenziale dal d.P.R. n. 1092 del 1973.

In tal senso appare sintomatico che il rimettente prospetti la questione di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 13 e 32, nella parte in cui non prevedono il computo gratuito anche ai funzionari della Polizia di Stato degli anni di durata legale del corso di laurea «previsto per gli ufficiali degli altri Corpi militari», poiché l’utilizzo del termine «altri» sottende una qualificazione della Polizia di Stato oramai da tempo venuta meno.

6.4.- Infine, in ordine alla sopravvenuta parificazione dei requisiti di età di cessazione dal servizio per la Polizia di Stato e per i militari, questa Corte osserva che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo, la circostanza non comporta la necessaria estensione della disciplina di favore ai funzionari della Polizia di Stato.

7.- In riferimento agli altri parametri costituzionali dedotti dal rimettente, la questione va dichiarata manifestamente infondata.

7.1.- Relativamente alla violazione dell’art. 36 Cost., questa Corte rileva che il corso di studi di laurea è estraneo all’attività lavorativa espletata, cui si riferisce la prestazione previdenziale e, pertanto, la disposizione censurata esula dal perimetro presidiato dal parametro costituzionale in oggetto.

7.2.- Per analoghe ragioni non è evocabile nella fattispecie la lesione dell’art. 38 Cost., poiché la disciplina del riscatto a fini previdenziali del periodo di studi universitari non rientra nell’ambito di tutela previdenziale cui si riferisce il parametro stesso.

7.3.- Sono, altresì, manifestamente infondate le argomentazioni svolte dal giudice rimettente a sostegno della dedotta lesione dell’art. 97, secondo comma, Cost.

Preliminarmente, si rileva che è competenza del legislatore prevedere le diverse forme di incentivazione alla formazione culturale del personale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

In tale ottica, l’assunto del giudice a quo secondo cui la non applicazione del beneficio in questione ai funzionari della Polizia di Stato costituirebbe un disincentivo a una maggiore formazione professionale varrebbe anche per tutti i dipendenti pubblici che rivestono una qualifica e svolgono funzioni per le quali è richiesto il possesso della laurea. Ne consegue che sotto tale profilo non sarebbe censurabile l’art. 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973 per la mancata applicazione ai funzionari della Polizia dello Stato, bensì il precedente art. 13 laddove, per tutti i dipendenti civili, stabilisce non la gratuità del computo degli anni di laurea, ma la mera facoltà di riscatto a titolo oneroso.

Infine, risulta tautologica e assertiva l’affermazione del rimettente secondo cui il beneficio accordato dall’art. 32 favorirebbe la propensione di soggetti in possesso di diploma di laurea ad accedere all’impiego militare presso l’Arma dei carabinieri a scapito dell’impiego civile presso la Polizia di Stato, così incidendo negativamente sul buon andamento delle funzioni assegnate a quest’ultima. Difatti è appena il caso di osservare che sono molteplici e ben più complessi e variegati i fattori che inducono ad optare per l’una o l’altra carriera, in primis la stessa acquisizione dello status militare piuttosto che dello status di impiegato civile, con tutte le conseguenti implicazioni.

8.- In conclusione, la questione di legittimità costituzionale in esame va, pertanto, dichiarata manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 36, 38 e 97, secondo comma, Cost. e non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 32 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 13 e 32 del d.P.R. n. 1092 del 1973, sollevata, in riferimento agli artt. 36, 38 e 97, secondo comma, Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Puglia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

SENTENZA

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