Con la sentenza impugnata,Il Consiglio di Stato ha ribadito la responsabilità di M. C. in ordine al reato di cui al’art. 337 cod. pen., confermando la pena inflittagli in primo grado di quattro mesi di reclusione.
Avverso la sentenza aveva proposto ricorso per cassazione l’imputato che con un unico motivo deduceva la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’art. 521 cod. proc. pen. La sentenza impugnata ha confermato la condanna non soltanto in relazione alla minaccia rivolta ai militari dell’Esercito in servizio di pattugliamento urbano intervenuti a sedare la colluttazione in cui il ricorrente era rimasto coinvolto, ma anche in relazione alle espressioni adoperate e alle gomitate inferte ai due Agenti della Polizia di Stato successivamente accorsi in sostegno dei militari, condotta quest’ultima non espressamente contemplata dal capo d’imputazione.
Secondo la difesa, l’uomo nel capo di imputazione veniva accusato solo di aver offeso i militari dell’Esercito Italiano , mentre non compariva alcun riferimento sulle gomitate inflitte ai poliziotti, quindi la sentenza andava ridiscussa. La Corte di Appello non ravvisava invece alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Sempre secondo la Corte territoriale, la sentenza di primo grado aveva semplicemente indicato le ulteriori condotte di resistenza compiute nei confronti degli agenti della Polizia di Stato intervenuti in ausilio dei militari, il che non aveva integrato alcuna modifica sostanziale dell’addebito (identica la condotta di aggressione e minaccia dei militari dell’esercito e identica la volontà di opporsi a un atto dell’ufficio degli Agenti successivamente intervenuti).
Secondo la difesa dell’uomo invece, era presente una violazione di legge in relazione alla dedotta assenza della qualifica di pubblici ufficiali dei militari dell’Esercito parti offese del reato, lanentando anche la mancata concessione delle attenuanti generiche.
Stralcio di sentenza del Consiglio di Stato
Il ricorso è manifestamente infondato e va come tale dichiarato inammissibile. Prima di affrontare l’esame della doglianza principale – sostengono i giudici – è opportuno trattare, in ragione della peculiarità della fattispecie, quella strettamente connessa della dedotta assenza della qualifica di pubblici ufficiali dei militari dell’Esercito Italiano in servizio di pattugliamento urbano.
La censura è manifestamente infondata. La qualifica di pubblici ufficiali e in particolare di agenti di pubblica sicurezza dei militari impegnati in detto servizio è espressamente sancita dall’art. 7 bis, comma 3 legge n. 185 del 2008, il quale recita che “Nell’esecuzione dei servizi di cui al comma I, il personale delle Forze armate non appartenente all’Arma dei carabinieri agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza e può procedere alla identificazione e alla immediata perquisizione sul posto di persone e mezzi di trasporto a norma dell’articolo 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152, anche al fine di prevenire o impedire comportamenti che possono mettere in pericolo l’incolumità’ di persone o la sicurezza dei luoghi vigilati, con esclusione delle funzioni di polizia giudiziaria.
Ai fini di identificazione, per completare gli accertamenti e per procedere a tutti gli atti di polizia giudiziaria, il personale delle Forze armate accompagna le persone indicate presso i più’ vicini uffici o comandi della Polizia di Stato o dell’Arma dei carabinieri.
Nei confronti delle persone accompagnate si applicano le disposizioni dello articolo 349 del codice di procedura penale”. Il possesso della qualifica di agenti di pubblica sicurezza ma non di polizia giudiziaria spiega l’esigenza della necessaria cooperazione tra i militari addetti al servizio e gli appartenenti ai corpi di polizia dello Stato che posseggono la seconda qualifica e dà conto dell’eventuale, auspicata e nella fattispecie realizzata sinergia tra le diverse categorie dei soggetti indicati, tutti comunque in possesso della qualità di pubblici ufficiali.
Tale è anche il motivo della correttezza della statuizione della Corte territoriale secondo cui, attesa ancora la peculiarità della fattispecie, non si è consumata alcuna violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza.
Trattandosi di condotte indistintamente poste in essere nei confronti di pubblici ufficiali nel medesimo contesto spazio – temporale ed anzi senza soluzione di continuità cronologica tra la prima (minacce verbali rivolte ai militari) e la seconda (minacce verbali e violenza fisica all’indirizzo degli Agenti di Polizia) fase delle stesse, l’imputato ha avuto modo di difendersi adeguatamente dall’addebito, che non può dirsi mutato in senso sostanziale rispetto alla contestazione formale che, al di là della indicazione esclusiva dei militari quali persone offese dal reato, contempla l’esercizio tanto della minaccia quanto della violenza.
Palesemente improponibile, infine, appare la censura riguardante il mancato riconoscimento delle attenuanti facoltative generiche, dalla Corte territoriale congruamente argomentato mediante il richiamo alla negativa personalità dello imputato, gravato da numerosi precedenti specifici e ciò nonostante già gratificato dall’omessa contestazione della recidiva .
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