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Militare subisce la “Rimozione dal grado” per una vicenda penale, ma per il tribunale è innocente.

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Un militare della Guardia di Finanza dopo aver subito la sanzione della perdita del grado, è stato giudicato innocente dal Tribunale Penale di Napoli. Reintegrato nel corpo, ha chiesto  il risarcimento dei danni morali, esistenziali, biologici ed economici (nella misura di euro 5.000,00), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, subiti per effetto della citata determinazione.

Il T.a.r. Lazio accogliendo in parte il ricorso del finanziere, ha condannato, in solido, il Ministero dell’economia e delle finanze e la Guardia di finanza a pagare, in favore del militare, la somma di euro 6.000,00 (seimila/00), oltre interessi legali dalla data della sentenza stessa, accogliendo in parte il ricorso.

Secondo i  giudici, il danno era riconducibile al solo provvedimento del 1° febbraio 2000 di perdita del grado per rimozione con conseguente irrilevanza, ai fini risarcitori, delle conseguenze prodotte dalla vicenda penale che ha precedentemente interessato il ricorrente e che si è conclusa con la sentenza di assoluzione del Tribunale di Napoli del 3 giugno 1998, ritenendo insussistente il danno economico relativo al blocco della progressione di carriera e alla mancata corresponsione degli stipendi nel periodo 1° febbraio 2000 – 20 luglio 2000, in quanto la Guardia di finanza, a seguito del provvedimento del 21 febbraio 2005 di riammissione definitiva in servizio, ha ricostruito, a fini giuridici ed economici, la carriera del ricorrente.

I giudici del Tar ritennero fondata la domanda risarcitoria con riferimento all’invocata lesione del diritto al lavoro e alle conseguenze relazionali, nell’ambiente di lavoro e non, derivanti dalla sanzione della massima gravità illegittimamente applicata, con colpa dall’amministrazione, poiché la stessa, in palese violazione dell’art. 653 c.p.p., ha posto a fondamento del procedimento disciplinare proprio quei fatti la cui sussistenza è stata incontrovertibilmente esclusa dalla sentenza del Tribunale penale di Napoli.

Su tale decisione, ha proposto appello  il Ministero dell’economia e delle Finanze, ma inutilmente. Di seguito la decisione del Consiglio di Stato dello scorso 19 giugno 2020.

L’unitaria censura sollevata dalla parte appellante, risulta non fondata.Come anticipato nella ricostruzione della vicenda, il Tribunale penale di Napoli, con la sentenza emessa in data 3 giugno 1998, divenuta irrevocabile in data 2 novembre 1998, assolveva il militare appellato “per non aver commesso il fatto”.

Del resto, in ragione di tale chiara statuizione, il T.a.r. per il Lazio, sede di Roma – Sez. II, in parziale accoglimento del ricorso, annullava l’impugnato provvedimento disciplinare perché fondato sugli stessi fatti oggetto di accertamento in sede penale con sentenza divenuta irrevocabile con formula di assoluzione piena dai reati ascritti “per non aver commesso il fatto”, in tal modo l’Amministrazione avendo posto in essere una inammissibile sovrapposizione del giudizio penale e di quello disciplinare.

Invero, com’è noto, ai sensi dell’art. 653 c.p.p., “la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso”.

L’Amministrazione, in presenza di una sentenza pienamente assolutoria, non poteva pertanto esercitare la propria potestà disciplinare. Sussiste quindi la colpa dell’Amministrazione, presupposto della responsabilità, per aver posto a fondamento del procedimento disciplinare, in violazione dell’art. 653 c.p.p., gli stessi fatti la cui sussistenza è stata esclusa, con sentenza passata in giudicato, dal Tribunale penale di Napoli.

Del resto, l’eventuale adesione a diverse prospettazioni ermeneutiche determinerebbe di fatto la rinnovazione della valutazione nel merito della legittimità del provvedimento disciplinare, divenuta inammissibile a causa della mancata impugnazione della citata sentenza del T.a.r. del Lazio.

In conclusione, in ragione di quanto esposto, l’appello deve essere respinto.


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