Avevano escogitato un sofisticato sistema per aggirare i controlli e riuscivano ad intascare di cospicue somme di danaro. Entrambi i militari i servizio presso l’amministrazione del Policlinico militare del Celio sono stati dichiarati responsabili di peculato militare continuato e aggravato, a norma degli artt. 215 e 47, primo comma, n. 2, codice penale militare di pace, 81 cpv. cod. pen., con il riconoscimento per entrambi delle circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante e la riduzione del trattamento sanzionatorio.
Più in particolare , il Luogotenente è stato condannato a nove e due mesi di reclusione , mentre il Primo maresciallo è stato condannato a due anni e quattro mesi di reclusione.
La sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale Militare ha trovato di concorde avviso il giudice della Corte Militare d’Appello di Roma che ha solo ridotto la pena, confermando la sentenza di primo grado. I due militari, in alcune occasioni commettevano il reato in concorso.
Il loro impiego gli permetteva di gestire il danaro presente nelle casse del Policlinico militare del Celio e con diverse modalità operative riuscivano ad appropriarsene, effettuando dei bonifici in proprio favore, incassando direttamente dei titoli emessi dall’amministrazione e appropriandosi direttamente anche di somme di denaro in contanti.
Entrambi i militari dopo la condanna di secondo grado, hanno tentato la via della Cassazione, ma la tesi difensiva non ha convinto i giudici.
Stralcio di sentenza della Corte di Cassazione
I ricorsi dei due militari sono inammissibili perché generici, assertivi e reiterativi di argomentazioni proposte nel giudizio di merito che sono state esaminate con motivazione che non viene specificamente criticata dal ricorso. Le doglianze in diritto sono, del resto, manifestamente infondate.
Va anzitutto evidenziato – sostengono gli ermellini – che i ricorsi non contestano la ricostruzione operata dai giudici di merito circa le modalità di appropriazione delle somme, ma contestano, nel caso del Luogotenente, la qualità di cassiere, peraltro unicamente con riguardo alla disponibilità della «cassa contanti», circostanza che risulta ininfluente, come lo stesso ricorso ammette, non essendo contestati all’imputato episodi distrattivi operati su somme contenute in quest’ultima.
È opportuno ricordare che -continuano i giudici – secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, «ricorre il delitto di peculato militare, e non quello di truffa militare, quando gli artifici e i raggiri, in particolare consistenti nella falsificazione di dati e di documenti contabili, siano posti in essere dal funzionario infedele per occultare l’illecita appropriazione e non già per procurarsi la disponibilità del bene oggetto dell’illecita condotta».
È inammissibile il motivo di ricorso del Primo Maresciallo, perché non sì confronta con la motivazione il provvedimento impugnato che ha evidenziato come, per un verso, le somme sequestrate nella cassaforte
dimostrano la condotta di appropriazione e non un comportamento positivo dell’imputato.
All’inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc.
pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, in
mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sentenza n. 186 del 2000), anche la condanna al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che si stima equo determinare in euro 3.000,00.
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