Articolo a cura di Di Francesco Franco
Tratto dalla redazione di adhocnews.it
Bordo pista, Aeroporto di San Giusto, Pisa. Esterno giorno.
Gli aeroplani rullano e se ne vanno, non si accorgono di noi: sono velivoli civili, non sono quelli destinati a noi.
Siamo seduti sull’asfalto da un’ora, uno appoggiato all’altro.
La sveglia è stata ad ora antelucana oggi, colazione con vitto rinforzato, cioccolata come nelle grandi occasioni.
Oggi si salta.
Sul pullman la tensione era palese, chiamiamola pure strizza, ma senza paura non c’è coraggio.
Oggi si salta.
Non c’è domani, non c’è ieri, solo un enorme presente.
Ecco il maresciallo, si avvicina a noi, con i suoi enormi baffi da trichecone: “Zyc 1, ecco l’ariomobile, Signori, voi siete i primi”.
L’ariomobile..Marescià, in fondo, lei ha ragione: di arie il C-130, in effetti, se ne da parecchie, con le sue coccarde e il suo rumore da turboelica, con i suoi piccoli oblò si presenta granitico e solenne, si gira quasi stizzoso e abbassa la rampa, invitando a sbrigarsi, senza nemmeno guardarci.
Ci giriamo e saliamo in file .“Non respirate”, ma è troppo tardi, l’odore di kerosene ha invaso i miei polmoni, è inebriante.
Nella pancia di questa anatra ipertrofica ci guardiamo l’un l’altro: dopo settimane di muro, plinto, capovolte, false carlinghe e torre sappiamo cosa fare, ma è pur sempre la prima volta.
L’aereo accelera, ci prendiamo tutti a braccetto come bambini, siamo decollati.
Oggi si salta davvero.
Il volo sarà breve, io sarò primo alla porta del mio passaggio: “attenzione, dieci minuti al lancio”, ma non è vero, ne mancano molti meno, il caldo è soffocante, per qualcuno è il primo decollo: ci guardiamo, non abbiamo un bell’aspetto onestamente, le spacconate di ieri sono finite: qualcuno sorride, ma è una fragile maschera: contiamo l’uno sull’altro, se qualcuno perderà tempo in porta l’ultimo finirà a fine zona sugli alberi.
Nel buio il Loadmaster e i Direttori di lancio si avvicinano ai portelloni di coda, uno per lato, proprio dietro le ali e l’alloggiamento carrelli.
Girano le maniglie e li sollevano.
Nella penombra del vano di carico irrompe la luce insieme a violenti turbini di aria a quattrocento all’ora, stiamo volando, le quattro eliche sono lì fuori, e fanno sentire la loro voce.
“Due minuti al lancio..prepararsi..in piedi..agganciare..” li sappiamo gli ordini, che noia in palestra alla “Gamerra” a ripeterli fino allo sfinimento..”chiamata di controllo”..sento le voci dei miei colleghi dietro di me “..tre bene, due bene”, una pacca sulla spalla, è Carlo dietro di me, la sua mano sudata come la mia.
Urlo “uno bene”, ma in realtà so un accidente: non ho controllato davvero. Lo faccio adesso: l’imbracatura è agganciata, la fune di vincolo è nella mia mano sinistra e pende da un cavo metallico che corre sulle nostre teste, sul soffitto dell’aereo, grande come un mignolo.
Ho agganciato io il moschettone, ma in verità non me ne sono nemmeno accorto. Potenza dell’addestramento, maledizione del mio filosofeggiare nei momenti più inopportuni.
Seguo questo nastro di vincolo giallo fino dietro al paracadute sulle mie spalle, è libero, non mi gira intorno al braccio o al collo.
Tra pochi secondi si tenderà a duecento all’ora ed estrarrà il paracadute. L’aria farà il resto.
Il “Direttore di lancio” con il suo caschetto da aviatore di cuoio stile prima guerra mondiale mi fa segno di avanzare verso quella luce che vomita rumore e vento e chissà cosa altro. Le mie gambe avanzano, passettini su passettini, cammino goffo.
“Alla porta” Mi giro e sotto di me ci sono trecento metri di vuoto, l’aereo sussulta e il Campanile di Bientina è lì, posso toccarlo: “Sguardo all’orizzonte!” mi rimprovero, un modo aulico per dire di non guardare di sotto.
Con la coda dell’occhio guardo il semaforino alla mia sinistra, è ancora rosso.
L’aereo rallenta, spancia, pare sedersi nell’aria, ci siamo, un’ultima pacca sulla spalla mi separa dal salto tanto agognato e temuto.
Ho deciso, solo ora ho deciso, non tre mesi fa quando chiesi di prendere il brevetto di Paracadutista, non in queste settimane, è ora che decido: non torno indietro, sia quel che sia.
E poi accade, tutto in un istante: la luce diventa verde, il pilota è allineato e per lui è ok, una pacca violenta mi urla “VIA”, salto fuori con tutte le mie forze, almeno così mi pare, ma in realtà è un ben misero slancio: vedo le mie mani come al rallentatore che si chiudono a scatti sul paracadute di emergenza agganciato al mio petto..il vento mi rapisce, mi porta in un’altra dimensione, mi pare di vedere i piani di coda dell’aereo ma sono troppo grandi. Sbuffo, dove sono?
Sento un tonfo come di un tappeto battuto da una massaia la domenica mattina sul balcone, è sopra di me: come in un abbraccio affettuoso qualcosa mi afferra da sotto le ascelle e mi tira verso l’alto. Il rumore è finito, sono appeso per aria, il silenzio mi pervade.
Di contare non se n’è parlato nemmeno, ma un enorme ombrellone verde chiaro è comunque sulla mia testa. È lontano, quasi dieci metri, ma è lì, Mio Dio è enorme.
Roba da pazzi, l’ho fatto sul serio.
Basta pensarsi addosso, Francesco: guardo i miei piedi negli anfibi e li vedo nello sfondo verde di un campo fangoso di Altopascio, davanti e dietro di me altri ombrelloni aperti, tutti ben distanziati, sembra la spiaggia di Forte dei Marmi ad Agosto.
Qualcuno urla, “Yahahu”, “Folgore”, cicchetti in vista: Signori, non è mica una giostra.
Il terreno si avvicina inesorabile come una condanna, se lo rifiuto mi farò male sul serio.
“Primo lancio Signori? Tranquilli, in terra ci arrivate comunque, per aria non è mai rimasto nessuno”. Simpatico il Maresciallo con il suo sarcastico cinismo: quanti ne deve aver visti nella sua carriera, tutti lì ha svezzati, tutti bianchi al decollo e sorridenti al rientro, o quasi, ad eccezione di chi è atterrato male.
Ultimi dieci metri, unisco le gambe, fletto le ginocchia, indurisco i muscoli e quasi urlo per la fatica..impatto.
Bah, tutto qui? Il paracadute si affloscia sull’erba. È fatta. Nulla di rotto.Finita? invece no: l’ombrellone si rigonfia beffardo, come un aerofreno di un dragster, mi trascina, striscio supino nel fango e sterpaglie, lotto, ma è più forte lui. Trascinamento in gergo.
Non riesco ad alzarmi, ok, calma, addestramento: sgancio un one shot che sorregge le bretelle dell’imbracatura, stavolta il paracadute si spegne sul serio. Mi alzo, tremo ma ho una carica incredibile, sopra di me altri ombrelloni a coronare il mio momento, l’aereo su cui ero meno di un minuto fa romba in quota per salutarmi.
Sono un Parà, e sono ancora intero: è bellissimo, e l’adrenalina me lo fa sembrare ancora più bello; mi giro e sorrido, un Caporale mi viene incontro, sono felice.
“Che cazzo fai, coglione, ci hai messo un’ora ad alzarti, imbecille, prendi il paracadute, buttalo nella borsa e levati, muoviti..”
Già, son proprio tornato sulla Terra.
(Primo lancio, C-130 H, Paracadute Irvin 80, Aprile 1997. Come fosse successo stamattina.)