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L’Italia in Libia difende l’interesse nazionale, anche facendo il “lavoro sporco”

Italian Prime Minister Paolo Gentiloni (R) listens to his Libyan counterpart Fayez al-Sarraj during a news conference at Chigi Palace in Rome, Italy, July 26, 2017. REUTERS/Max Rossi

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Nel Libano dilaniato dalla guerra civile, con i camion bomba guidati da kamikaze lanciati contro le ambasciate di America e Francia, l’Italia seppe mantenersi fuori da quegli orrendi massacri soprattutto per la capacità dei suoi servizi di intelligence di interagire con alcune delle milizie in campo, da Amal ed Hezbollah sciite alle milizie cristiano-maronite.

Non si trattava di collusione con il nemico ma di saper stare sul territorio, un territorio minato, e non era una metafora, per minimizzare i rischi e le perdite. Questo riferimento storico-militare, è utile per affermare un principio che può non trovare d’accordo, posizione legittima, i teorici di un pacifismo senza se e senza ma, e che tuttavia non può essere liquidato sprezzantemente come sciagurata realpolitick.

Il principio in questione può essere sintetizzato così: per difendere gli interessi nazionali occorre anche il “lavoro sporco”: quello che si fa sottotraccia, la diplomazia “sotterranea”, il lavoro h24 della nostra intelligence, i rapporti che vanno stretti anche con chi non inviteresti mai a cena.

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