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In riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle forze armate, da cui possono derivare sanzioni che incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che hanno rilievo costituzionale, la Corte Costituzionale ha ribadito la necessità di salvaguardare la possibilità di un contraddittorio che garantisca il nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona (sentenza n. 356 del 1995).
E ha concluso che, nell’ambito della sfera applicativa del diritto di difesa ai procedimenti amministrativi, non possa considerarsi irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l’accusato ricorra a un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta (tutela dell’ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione.
E ciò in quanto la mancata previsione, nella norma censurata, della possibilità di nominare quale difensore un avvocato, “anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia” (sentenza n. 356 del 1995), non viola né il diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato che la stessa norma consente all’inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le proprie ragioni.
Vanno garantiti all’interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti, la partecipazione alla loro formazione e la facoltà di contestare il fondamento e di difendersi dagli addebiti, tra cui quello, mutuato dalla giurisprudenza comunitaria ( nello specifico, dalla Corte di Giustizia ), di essere posto nelle condizioni di far conoscere utilmente il suo punto di vista. La sentenza integrale, QUI