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Denuncia il poliziotto che la identifica. Agente condannato per abuso d’ufficio. Appello e Cassazione annullano la sentenza

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Un poliziotto  è stato condannato dal Tribunale di Milano per il reato di abuso d’ufficio , perché, quale
appartenente alla Polizia di Stato, nello svolgimento delle sue funzioni, in violazione dell’art. 349 cod. proc. pen., procurava intenzionalmente un danno ingiusto alla signora C. M. rappresentato dall’ingiustificato accompagnamento per l’identificazione della stessa presso gli uffici della Questura di Milano costringendola a permanere per circa sei ore.

La versione della donna

Secondo la versione della donna,  il giorno del commesso reato era stata attratta dal tono alto di voce che un agente di polizia stava usando nei confronti di un ragazzino; ritenendo che il poliziotto stesse perdendo il controllo, chiedeva allo stesso cosa fosse capitato; ne sorgeva una discussione nel corso della quale la persona offesa invitava l’agente a calmarsi, ma l’agente le aveva risposto che non doveva impicciarsi e che non erano affari suoi.

Richiesta dall’agente di fornire le sue generalità, la donna, sprovvista di documenti a causa di un furto subito la mattina stessa del fatto, riferiva del furto e dichiarava di chiamarsi M. C.; La donna veniva successivamente accompagnata in Questura insieme al minore dove veniva trattenuta per fermo per identificazione.  in Questura l’agente redigeva comunicazione notizia di reato, annotazione di servizio, verbale di identificazione, nonché verbale di accompagnamento per l’identificazione ai sensi dell’articolo 349 cod. proc. pen.

La versione dell’ agente di Polizia


Nella sentenza impugnata in appello,  si evidenzia che di tutt’altro tenore è la versione dei fatti fornita dal poliziotto, che riferiva che la donna lo aveva subito aggredito dicendo che stava abusando del suo potere e che era un fascista, un pazzo e che si trovava in uno stato di polizia. La donna non forniva immediatamente le proprie generalità; solo successivamente a fronte dell’insistenza degli operanti dichiarava di chiamarsi C. M.. L’agente precisava che la donna non gli aveva in alcun modo riferito di aver sporto denuncia per il furto dei portafogli quella mattina e che se lo avesse saputo, avrebbe potuto agevolmente contattare l’ufficiale della Questura.

L’agente riferiva anche di aver invitato la donna a recarsi presso l’abitazione a prendere i documenti ma che la stessa aveva rifiutato. Aveva inoltre scritto nel verbale di accompagnamento che sarebbe stato dato avviso al Pubblico ministero di turno. Si trattava di un compito specifico della PG del commissariato che avrebbe provveduto il lunedì mattina.

Stralcio della condanna del tribunale

il Tribunale di primo grado è pervenuto ad una sentenza di condanna ritenendo pienamente attendibile la parte civile e quindi coerente e non contraddittorio il suo racconto che divergeva, invece, sotto molteplici aspetti da quello dell’agente. Secondo  i giudici, il fermo per identificazione era stato scientemente operato dell’agente con finalità punitiva (il predetto, parlando con la parte offesa, le diceva che «il problema non era la mancanza di documenti ma “farsi i fatti propri”» e, ancora, riferiva in Questura che “la donna era pulita e aveva solamente voglia di rompere le palle”). I giudici di primo grado sottolineavano, inoltre, che la norma di legge violata era l’art. 349 del codice di rito che consente l’accompagnamento coattivo in Commissariato solo quando sussistono sufficienti elementi per ritenere la falsità delle dichiarazioni sulle proprie generalità.

Stralcio della sentenza della Corte di  Appello

Di tutt’altro parere la Corte di Appello del Tribunale di Milano. I giudici  hanno sovvertito il giudizio di primo grado evidenziando  le dichiarazioni di un testimone presente ai fatti che aveva riferito che il tono aggressivo non era certo quello usato dal poliziotto ma quello della donna. La Corte ha inoltre rilevato che se non poteva escludersi che l’imputato si fosse rivolto in modo concitato alla donna, tuttavia la stessa non si era allontanata ed aveva continuato a urlare che le sembrava di avere a che fare con un pazzo. In questo contesto, a giudizio della Corte, era ragionevole pensare che l’agente avesse rappresentato alla signora che l’avrebbe denunciata per oltraggio a pubblico ufficiale e tale condotta non poteva certo ritenersi integrare un abuso d’ufficio. La Corte d’appello cita anche le dichiarazioni del capo del Commissariato il quale ha sostenuto che era una prassi automatica quella di accompagnare in Questura la persona da denunciare priva di documenti.

In  sostanza la Corte d’appello ha ritenuto non giuridicamente corretto ravvisare un abuso d’ufficio in capo all’agente per avere accompagnato la parte civile in Questura, essendosi limitato a svolgere il proprio dovere.

Stralcio della sentenza della Corte di Cassazione


Avverso la sentenza della Corte di Appello, la donna ha presentato ricorso ai fini civili presso la Corte di cassazione, ma inutilmente.  Ritiene il Collegio che, alla luce di quanto sopra evidenziato,
la Corte di appello abbia puntualmente messo in evidenza che, in considerazione della condotta tenuta dalla parte civile, vi erano concreti motivi per dubitare della veridicità delle dichiarazioni da lei rese sulla propria identità.

Quanto all’omesso avviso al Pubblico ministero dell’accompagnamento in Questura, correttamente la Corte territoriale evidenzia che l’agente aveva segnalato nel verbale da lui redatto di dare tale avviso e che di questo si doveva occupare l’ UPG che avrebbe preso servizio il lunedì mattina (i fatti si sono svolti il sabato pomeriggio).  Non avere apposto sul verbale di accompagnamento un appunto per
ricordare all’UPG di dare la comunicazione costituisce unicamente la violazione di una prassi operativa e non certo una violazione di legge o di regolamento ed, in ogni caso, tale condotta non può fornire la prova certa che l’imputato volesse arrecare un danno ingiusto alla signora.

La Corte di Cassazione  rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa dell’ agente G.A. che liquida in euro 3500, oltre agli accessori di legge.




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