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Consiglio di Stato: valido l’accordo tra Amministrazione e il militare per non riconoscere benefici economici di trasferimento

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La sentenza del Consiglio di Stato che andremo a spiegare di seguito potrebbe rendere nulle molte sentenze dei Tar che si erano pronunciate favorevoli alla corresponsione, da parte dell’ Amministrazione, all’indennità prevista per i trasferimenti d’autorità, malgrado precedentemente vi fosse stato un accordo in senso contrario tra le parti.

Vi proponiamo in anteprima la decisione dei giudici circa il trasferimento di gradimento e la correlativa “validità” della rinuncia alle indennità ex art. 1 L. n. 86 del 2001 previo accordo con lamministrazione.


Un maresciallo dell’Aeronautica Militare in servizio a Cagliari, a seguito di soppressione del reparto di assegnazione nel settembre del 2006 è stato trasferito, previo suo gradimento e correlativa rinuncia alle indennità ex art. 1 L. n. 86 del 2001, ad altro reparto di stanza nel comune di omissis.

Successivamente il militare ha proposto domanda di corresponsione delle indennità di trasferimento, non accolta dall’Amministrazione. Il maresciallo nel 2012 ha impugnato il sostanziale diniego avanti al TAR Sardegna che ha accolto il ricorso statuendo da un lato che il trasferimento era avvenuto per esigenze d’ufficio ( cfr. Ap. n. 1 del 2016); dall’altro che la rinuncia formulata dall’interessato non era valida non essendo stata formalizzata in sede conciliativa.

Il Ministero della Difesa ha  impugnato la sentenza, rivolgendosi al Consiglio di Stato, ammettendo si natura officiosa del trasferimento ma sostenendo che l’interessato aveva validamente rimesso il debito in favore dell’Amministrazione.

Stralcio di sentenza del Consiglio di Stato

In punto di fatto va ricordato che il militare, nella fase prodromica al suo trasferimento per soppressione reparto, con apposita dichiarazione assunta al protocollo dell’ente di appartenenza in data —-2006 ha preso atto che ai fini amministrativi il trasferimento sarebbe stato considerato a domanda e ha altresì dichiarato “ di essere consapevole e di accettare che l’Amministrazione non gli riconoscerà i benefici economici previsti per trasferimenti d’autorità”.

Come è noto, la citata sentenza dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato n. 1 del 2016 – indagando gli effetti delle c.d. dichiarazioni di gradimento rilasciate dai militari movimentati a seguito di soppressione reparto – ha statuito nel senso che le stesse ( pur non modificando la natura officiosa del trasferimento) da un lato comportano acquiescenza alla individuazione della nuova sede; dall’altro non incidono direttamente sul diritto del militare a percepire le relative provvidenze, salvo rinuncia allo stesso o remissione del relativo debito.

Precisa al riguardo l’Adunanza: “L’acquiescenza rende dunque irretrattabile l’individuazione della sede prescelta rendendo inammissibili, per carenza di interesse ad agire, le eventuali iniziative contenziose intraprese dal militare che subisce il trasferimento, ma non incide sul diritto di credito (a percepire l’indennità) che scaturisce direttamente dalla legge al ricorrere di determinati presupposti.

certamente anche il diritto di credito in questione può essere oggetto di rinuncia (rectius rimessione del debito nel linguaggio dell’art. 1236 c.c.), ma al verificarsi di tutte le condizioni previste dalla richiamata disposizione che sono diverse e non sovrapponibili rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie dell’acquiescenza, non fosse altro che per la diversa indole della situazione soggettiva coinvolta (diritto soggettivo in relazione alla spettanza dell’indennità, interesse legittimo in relazione all’esercizio del potere organizzatorio e gerarchico da parte dell’Autorità militare).

Ciò premesso e ricordato che il trasferimento – come l’Amministrazione del resto ora ammette – doveva considerarsi autoritativo – sostengono i giudici – l’oggetto primario della presente controversia consiste nello stabilire se la rinuncia al credito – formulata dal sottufficiale nei termini soprariportati – fosse o meno valida, non essendo stata formalizzata nell’apposita sede conciliativa protetta, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2113 cod. civ. e 409 cod. proc. civ..

Al riguardo, come dedotto dalla appellante Amministrazione, ragioni innanzi tutto testuali escludono l’applicabilità al personale militare della disciplina circa l’invalidità di rinunce e transazioni del prestatore di lavoro contenuta nell’art. 2113 cod. civ., giacchè questa disciplina nel vasto ambito del rapporto di lavoro pubblico riguarda soltanto ( art. 409 n. 5 cod. proc. civ. ) il personale c.d. privatizzato e non dunque il personale tuttora “in regime di diritto pubblico” ( art. 3 c. 1 T.U. n. 165 del 2001) fra cui i militari, le cui controversie lavoristiche infatti esulano dal Titolo IV del Libro II del codice di procedura civile risultando attribuite alla giurisdizione amministrativa.

A ciò deve aggiungersi, sul piano sistematico, che il trattamento economico e giuridico del personale militare è governato da una propria disciplina ( c.d. autosufficienza o specificità dell’ordinamento militare ) ex artt. 625 e 1777 C.O.M..

Ne consegue che a giudizio di questo Collegio ha errato il Tribunale nel ritenere invalida la rinuncia in controversia sol perché non formulata in sede conciliativa protetta.

Sotto altro profilo, è poi da precisare che – come parimenti osserva l’appellante Amministrazione richiamando il punto 4 lettera P della circolare del Ministero del Tesoro del 10.9.1996 – i vari benefici economici connessi al trasferimento dei militari sono disponibili, essendo erogati a domanda e avendo natura indennitaria nonché carattere accessorio e non continuativo: con la conseguenza che non è applicabile al caso concreto l’insegnamento della Corte Suprema in tema di nullità delle rinunce preventive a diritti patrimoniali indisponibili o derivanti da norme inderogabili ( ad. es. Cass. sez. lavoro n. 12561 del 2006).


La dichiarazione rilasciata dal sottufficiale e sopra riportata denota a giudizio del Collegio la inequivoca e ( deve presumersi in difetto di contestazioni sul punto) non viziata volontà del dichiarante di abdicare a quel credito, probabilmente sulla base di personali calcoli di convenienza.

Ora, nell’ambito dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento, la dichiarazione di remissione del debito ex art. 1236 c.c. è strutturata quale negozio neutro quoad causam, non soggetto a particolari requisiti di forma nemmeno ad probationem, e soprattutto unilaterale recettizio, relativamente al quale la dichiarazione “a parte creditoris” si presume accettata dal debitore, e produce pertanto i suoi tipici effetti estintivi, dal momento in cui la comunicazione perviene a conoscenza del destinatario (art. 1334 cod. civ.), a meno che questi, conosciuta la volontà remissiva, non dichiari entro un termine congruo di non volerne profittare.

In termini piani, il sottufficiale – una volta validamente comunicata nel 2006 all’Amministrazione la remissione – non poteva più l’anno seguente pretendere l’adempimento.

Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello del Ministero della Difesa va pertanto accolto, con integrale riforma della sentenza gravata e rigetto del ricorso introduttivo.




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