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Carabiniere si chiude nell’auto di scorta e lascia fuori i colleghi. Condannato a tre mesi di reclusione

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Un appuntato dei Carabinieri, durante un servizio di scorta ad un collaboratore di giustizia, con mansioni di autista , rifiutò, durante una sosta, di riconsegnare le chiavi dell’auto al maresciallo capo scorta. 

L’episodio risale al 2014, ma la vicenda si è conclusa in cassazione soltanto  lo scorso  mese. Il maresciallo responsabile del servizio di scorta, dopo una sosta in autostrada in un’area di servizio, chiese all’appuntato di consegnargli le chiavi del veicolo e di accomodarsi nel sedile posteriore, poiché , in considerazione delle condizioni di affaticamento, intendeva sostituirlo nelle mansioni di autista con un altro militare facente parte della stessa scorta;


L’appuntato, invero, aveva chiesto di fermarsi in un altro luogo, per poter consumare un pasto in condizioni di comodità , ma il maresciallo decise di fermarsi in un’altra area, ed una volta fermi,  gli chiese le chiavi. L’appuntato non solo si rifiutò di riconsegnargli le chiavi,  ma si chiuse nell’auto di servizio, creando un’evidente situazione di pericolo dato il  genere di incarico (tanto più che dentro l’abitacolo si trovavano i giubbotti antiproiettile), Tale disobbedienza all’ordine proveniente dal superiore inerente al  servizio cessò soltanto dopo l’intervento telefonico di altri militari. 

Ne conseguì una trafila disciplinare che finì in tribunale. Dopo due gradi di giudizio ( tribunale militare e corte di appello) il carabiniere fu condannato a tre mesi di reclusione , con la concessione delle attenuanti generiche.

Secondo la sentenza della Corte di Appello, non vi era alcuna ragione per potere disattendere l’ordine del superiore tanto più con quelle gravi modalità. L’Appuntato tentò quindi la via della cassazione affidandosi a 4 motivi.

Stralcio della sentenza della Cassazione


Il ricorso – sostengono i giudici – va dichiarato inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
La prospettazione della ritorsione da parte del superiore e pertanto della pretestuosità delle ragioni della sostituzione, intendono configurare la scriminante dovuta alla natura dell’ordine e comunque le condizioni per ritenere (ragionevolmente) la relativa giustificazione del rifiuto. 

Si tratta di una lettura che, a parte le mere rivalutazioni in fatto sulle quali
poggia, appare palesemente in contrasto con le disposizioni normative dettate in materia, cosi come interpretate dalla costante giurisprudenza di legittimità.

Va chiarito – continuano i giudici – che ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di disubbidienza militare è richiesto il dolo generico, consistente nella mera volontà di rifiutare di obbedire a un ordine impartito dal superiore che abbia attinenza al servizio.

Secondo quanto previsto dall’art. 1349, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell’ordinamento militare), che riproduce il testo dell’abrogato art. 4, d.lgs. 11 luglio 1978, n. 382, l’insindacabilità e vincolatività dell’ordine del superiore proprie del sistema gerarchico militare, trovano una limitazione
unicamente quando l’esecuzione di tale ordine possa costituire  manifestamente reati.

In tutte le altre ipotesi rimane invece assolutamente irrilevante, sotto ogni profilo, il motivo per cui il militare abbia ritenuto giustificato il rifiuto di  obbedire all’ordine del superiore attinente al servizio.

Ebbene, le mere illazioni circa le ragioni del comportamento del superiore configurate dalla difesa non hanno nessuna attinenza con le suddette condizioni scriminanti come richieste dall’art. 1349 del Codice dell’ordinamento militare, sicché nessuna causa di giustificazione reale o putativa rimane rappresentata. Da ciò l’inammissibilità per manifesta infondatezza dei primi due motivi.↓


Il terzo motivo risulta parimenti inammissibile, non essendo consentito invocare in sede di legittimità, per la prima volta, l’applicazione della non
punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., con particolare riguardo alle connotazioni di non particolare tenuità del fatto rappresentate dalla descrizione delle condizioni di oggettivo pericolo causate dalla condotta ( ci si  sofferma in proposito nella sentenza sia sull’intrinseca delicatezza del servizio in corso, sia sulla circostanza che l’imputato, impedendo agli altri militari e al collaboratore di rientrare  nell’auto di servizio, li espose a ulteriori condizioni di rischio anche perché i giubbotti antiproiettile si trovavano dentro detto veicolo).

Anche il quarto motivo – cocludono i giudici – non fa altro che prospettare inammissibili rivalutazioni, fondate per di più su personali letture di merito già smentite dalla motivazione sulla responsabilità.

E ciò in opposizione sia al diniego della prevalenza delle attenuanti  generiche, sia al mantenimento della pena base già alquanto contenuta. Mentre la motivazione al riguardo della sentenza di secondo grado risulta di certo adeguata, quando, a fonte dell’assenza di specifici rilievi in sede di appello circa la dosimetria della pena, richiama, conformemente alle valutazioni espresse dai giudici di primo grado, i tratti negativi desunti dalle
accertate modalità dei fatti sotto il profilo della (descritta) oggettiva  pericolosità.

Dalla dichiarazione di inammissibilità discende la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali e, considerati i profili di colpa, della somma determinata in euro tremila in favore della cassa delle ammende.


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Immagine di repertorio

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