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Caporal Maggiore dell’ Esercito condannato per “ubriachezza in servizio”. Sono innocente! Ma i giudici non gli credono

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Un caporal maggiore dell’Esercito nel 2018 è stato condannato dal tribunale militare a tre mesi di reclusione  per ubriachezza in servizio.

Nella sentenza del Tribunale si apprende che il militare nel 2016, mentre era impegnato in una esercitazione militare, uscì dalla caserma per recarsi in un locale pubblico poco distante, insieme ad un commilitone. II graduato era membro organico della Compagnia che doveva garantire le comunicazioni tra i reparti speciali sul terreno ed aveva mansioni di autista.

Poco dopo , il militare che l’ aveva accompagnato, lo aveva ritrovato nel parcheggio dinanzi la caserma, riverso in terra e ubriaco. Il militare si era defecato indosso e straparlava. Condotto al Pronto Soccorso, i medici constatavano le sue condizioni fisiche e valori di alcolemia pari a 1,3
g/I (e cioè quasi il triplo del massimo di riferimento normale).

Il Capooral Maggiore, in condizioni non proprio lucide, aveva sostenuto ai medici di essere stato aggredito. Sul suo corpo però il medico militare non aveva riscontrato tracce di ecchimosi o di ematomi. Durante il processo, il Caporal maggiore sostenne che durante l’aggressione gli fosse stato portato via il portafoglio, mentre invece lo stesso era stato ritrovato da alcuni militari che glielo avevano riportato, che il danaro all’intero del portafogli era stato rubato, mentre vi era tutto e che aveva bevuto soltanto un liquido analcolico e di avere subito dopo perso i sensi, risvegliandosi al Pronto Soccorso.



Nulla da fare, il Tribunale Militare concludeva per la sussistenza del reato: l’imputato era
stato colto in palese ubriachezza e la sua narrazione di una imprecisata rapina era
smentita dall’assenza di segni di percosse e dalla mancanza di una sua denunzia.

Inoltre secondo il giudice, il Caporal Maggiore durante l’episodio era in stato di reperibilità, per cui il reato sussisteva, in quanto era stato sollevato dall’incarico e sostituito con altro militare. Il Tribunale Militare riconosceva comunque le circostanze attenuanti generiche come equivalenti alle circostanze aggravanti contestate.

La Corte di Appello nel gennaio 2019, in riforma della sentenza di primo grado, determinò la pena in mesi uno e giorni quindici di reclusione militare. Secondo i giudici l’appello era fondato poiché il militare al momento del fatto, era in libera uscita, per cui non poteva applicarsi il comma 2 dell’art. 139 del codice penale militare di pace.

Si arriva in Cassazione, dove nei giorni scorsi il militare ha chiesto l’ assoluzione,  depositando ulteriori quattro motivi, tra i quali un probabile scherzo dei commilitoni finito male e la particolare tenuità del fatto.

Stralcio della sentenza della Corte di Cassazione

Secondo i giudici, manifestamente infondate devono ritenersi le doglianze prospettate,
in quanto orientate a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte nel giudizio
di merito, ed ivi ampiamente vagliate e correttamente disattese dal giudice.

Il giudice di appello, confermando e richiamando la sentenza di primo grado, ha evidenziato che, da un lato, l’ipotesi di un bibita analcolica troppo fredda era esclusa dagli esiti degli esami alcolemici, i quali avevano rivelato un grado elevato di ubriachezza nel ricorrente e che, d’altro lato, lo stesso militare non aveva ipotizzato scherzi bensì aveva confusamente narrato di una imprecisata rapina.



A tematica della causa di non punibilità della particolare lievità del fatto – sostengono i giudici – è stata espressamente respinta dal giudice di appello, che ha richiamato non soltanto una precedente condanna a carico del ricorrente, ma anche la modalità della sua condotta e la pericolosità della stessa,  sottolineando il grado alcolemico elevato riscontrato nel militare, e la sua assoluta incapacità di svolgere il suo lavoro e la pericolosità di una simile situazione per chi – come appunto il Caporal Maggiore – aveva il precipuo compito di essere impiegato nella conduzione di automezzi e poteva essere richiamato in servizio in qualsiasi momento, data la situazione di pronta reperibilità cui era sottoposto.

Infine, è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, si miri ad una nuova
valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione, per come nella specie avvenuto (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Rv. 259142).

Di conseguenza – concludono i giudici – il ricorso proposto deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla cassa delle ammende, determinabile in 3.000,00 euro, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.





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