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Denuncia violenza sessuale di un carabiniere durante perquisizione, ma è falso. Condannata!

Le false confessioni di una donna durante una visita ginecologica le sono costate una condanna.

La sedicente vittima aveva denunciato al medico del pronto soccorso di essere stata abusata sessualmente durante una perquisizione effettuata dai carabinieri. In particolare,  avrebbe denunciato che un militare “uomo”,  non espressamente indicato, le aveva introdotto un dito nella vagina .

La storia



Durante un controllo, la signora fu trovata  in evidente stato di alterazione” connesso all’avere “assunto sostanze alcoliche”. Sottoposta a fermo e perquisita, le furono rinvenute modiche quantità di hashish e cocaina. I militari quindi sospettarono che avesse nascosto stupefacenti e la fecero accompagnare al pronto soccorso per una visita ginecologica.

Giunta in ospedale in apparente “stato confusionale”, la donna continuò a comportarsi in modo ingiurioso contro i militari. Durante la visita ginecologica, rivelò al dottore che un carabiniere l’aveva violentata poco prima. Al termine della visita, uscendo dal pronto soccorso, disse ai carabinieri che li avrebbe denunciati per quanto subito.

Il medico del pronto soccorso , così come previsto per legge, informò l’autorità giudiziaria di quanto occorso. Venne avviata un’indagine ed emerse che le dichiarazioni rese dalla donna furono tutte inventate. 

Sia il medico che l’infermiere del pronto soccorso confermarono che la sedicente vittima dichiarò di avere dolore in corrispondenza delle parti intime, oltre ad affermare che ” uno dei militari di sesso maschile le aveva effettuato una esplorazione vaginale” mentre la perquisiva.

Dai riscontri avuti dalle indagini emerse invece che a perquisirla fu un maresciallo dei Carabinieri “donna” . Il militare non la obbligò a togliere alcun indumento, ma si limitò a fare scorrere le mani sull’intero corpo senza toccare parti intime e, tantomeno, introdurre un dito nella vagina. 

Condannata dal Tribunale Ordinario e dalla Corte di Appello per il reato di calunnia, la donna ha tentato la via della Cassazione,soccombendo per la terza volta. I giudici, nello stralcio di sentenza che vi  proponiamo di seguito, hanno spiegato le ragioni per le quali il provvedimento di condanna era corretto, così come non potevano essere concesse le attenuanti.

Stralcio di Sentenza della Corte di Cassazione

Le deduzioni sviluppate dalla difesa, non si confrontano con quanto riferito dal medico del pronto soccorso:   

La consapevolezza da parte del denunciante dell’innocenza della persona
accusata è esclusa solo quando la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi, connotati da un riconoscibile margine di serietà e tali da ingenerare concretamente condivisibili dubbi da parte di una persona di normale cultura e capacità di discernimento, che si trovi nella medesima situazione di conoscenza .

Nel caso in esame – sostengono gli ermellini – quanto affermato dall’imputata contrasta radicalmente con le dichiarazioni del maresciallo donna dei Carabinieri.

Per la configurabilità del delitto di calunnia -continuano i giudici – non occorre una denuncia in senso formale, bastando che taluno, rivolgendosi in qualsiasi forma all’autorità giudiziaria ovvero ad altra autorità avente l’obbligo di riferire alla prima, esponga fatti concretanti gli estremi di un reato, addebitandoli a carico di persona di cui conosce l’innocenza ,
mentre è inconferente l’argomento secondo cui l’imputata non poteva sapere che il sanitario del pronto soccorso avesse obbligo di riferire all’autorità giudiziaria e che, quindi, tale errore sia da considerare quale ignoranza inevitabile ai sensi dell’art. 5 cod. penale.

Nel caso in esame, l’imputata ha assunto sostanze alcoliche e non si è limitata a denunciare il falso ma ha attuato anche una condotta oltraggiosa e minacciosa nei confronti dei militari anche più volte opponendosi alle loro attività .

Inoltre, la applicazione della aggravante è avvenuta in linea con le previsioni normative relative alla quantificazione dell’aumento rispetto alla pena-base e in applicazione dell’art. 368, comma 2, cod. pen. sono logicamente confluenti in quelle relative alla determinazione della pena-base, e infondate, per quanto dinanzi osservato.

Le deduzioni sviluppate circa il diniego delle circostanze attenuanti generiche risultano infondate. Il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare quanto basta a chiarire la sua valutazione sull’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo.

Tuttavia, se sono sviluppate deduzioni che evidenzino elementi rilevanti per le valutazioni relative alle circostanze attenuanti generiche, allora il giudice deve motivarne adeguatamente la reiezione.

Nella sentenza di primo grado il disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è stato fondato sul mero rilievo della assenza di elementi di valutazione favorevoli. Invece, nell’atto di appello sono state evidenziate—le “modalità di accadimento” del fatto e le “condizioni di menomazione psicofisiche” della donna.

Con riferimento alla questione in esame, va ribadito che gli stati emotivi
o passionali, pur non escludendo né diminuendo l’imputabilità, possono essere considerati dal giudice per la concessione delle circostanze attenuanti generiche, se influiscono sulla misura della responsabilità penale.

Anche un generico stato di agitazione del reo non accompagnato da una grave e permanente compromissione delle sue funzioni intellettive e volitive, sebbene non rilevi come vizio di mente, può integrare gli estremi di uno stato emotivo valutabile nella determinazione delle sanzioni.

In particolare, lo stato di ubriachezza volontaria può – per determinate
condizioni di fatto, apprezzabili caso per caso  dal giudice di merito – essere considerato per la concessione delle attenuanti generiche

Tuttavia il riconoscimento di uno stato emotivo che non sia direttamente
collegato a consolidate e comuni cause (autoconservazione, ira gelosia, di un certo tipo di condotte)  non può essere fondato sulla mera allegazione di suoi non probabili indici o su generiche presunzioni ma richiede, di essere giustificato sulla base di una argomentazione che almeno ne illustri la plausibilità come causa di uno “stato mentale alterato” sul piano intellettivo e/o volitivo.

Nel caso in esame, un’analisi siffatta non è presente nei ricorsi (in appello e in cassazione) dell’imputata, né i dati acquisiti presentano evidenze che potessero condurre la Corte di appello a integrarla con le sue valutazioni, soprattutto perché, – deve osservarsi – le testimonianze raccolte, delineano uno scarto considerevole fra il reale andamento dei fatti e la descrizione calunniosa che l’imputata ne ha dato.

Dal rigetto del ricorso deriva ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento

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